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Sebbene la coscienza sia stata a lungo considerata caratteristica peculiare dell’essere umano, negli ultimi anni si è assistito a un fiorire di studi dedicati alla mente negli animali non-umani[1]. Si tratta di un tema che solleva numerose difficoltà, chiamando in causa il problema delle altre menti in una forma estrema, dato che gli animali non hanno un linguaggio tramite il quale descrivere le loro sensazioni. Nonostante l’assenza di una definizione non ambigua di coscienza, quando si parla di menti non-umane si intendono alcune capacità riscontrabili in numerosi gruppi tassonomici e cioè percezione, discriminazione, consapevolezza e categorizzazione degli stimoli, nonché pianificazione di comportamenti complessi. L’ultimo libro di Peter Godfrey-Smith, professore di storia e filosofia della scienza all’Università di Sidney e professore emerito presso la City University of New York, si inserisce in questo filone di studi e presenta al lettore in maniera chiara e discorsiva – ma non per questo meno rigorosa – alcuni protagonisti straordinari del regno animale: i cefalopodi. Una domanda sembra echeggiare fra le pagine di questo libro ed è una variante della famosa domanda espressa da Thomas Nagel[2] relativamente a cosa si provi a essere un pipistrello: in questo caso, tuttavia, ciò che interessa all’autore è cosa si provi a essere un polpo e, come vedremo, la risposta è forse ancora più complessa.
Le specie che rientrano nella classe dei cefalopodi sono numerose, ma l’autore si sofferma su polpi, seppie e calamari, accomunati da un sistema nervoso complesso, un grosso cervello, sensi ben sviluppati e capacità cognitive e comportamentali sorprendenti. La straordinarietà dei cefalopodi, tuttavia, non risiede soltanto nelle loro attuali caratteristiche, ma, nondimeno, nella loro storia evolutiva che non potrebbe essere stata più differente dalla nostra.
Other Minds. The Octopus and the Evolution of Intelligent Life (Harper Collins, 2016), si apre (Meeting Across the Tree of Life, p. 3) con uno sguardo al nostro passato, teso alla ricerca di un antenato comune all’uomo e al polpo. Godfrey-Smith cerca l’ultimo tratto condiviso della storia evolutiva di due specie diversissime, un mammifero e un mollusco che, nonostante le profonde differenze, sembrano condividere qualcosa di distintivo. Il più recente antenato comune a uomini e polpi è vissuto circa 600 milioni di anni fa e di lui sappiamo pochissimo: era, presumibilmente, un vermicello che nuotava nell’oceano o strisciava sul fondale e che rappresenta il punto di biforcazione di due enormi rami dell’albero evolutivo, da un lato, il ramo che porterà ai vertebrati, come gli uccelli e i mammiferi, dall’altro, il ramo degli invertebrati, come gli insetti e i molluschi; e se nel primo ramo si evolverà diffusamente il sistema nervoso e il comportamento complesso, non si potrà dire lo stesso del secondo. Tuttavia, all’interno di questo sterminato gruppo di invertebrati si trova quella che Godfrey-Smith definisce un’“isola di complessità mentale” che può essere ragionevolmente considerata un esperimento indipendente nell’evoluzione del cervello, vista la lontananza filogenetica fra uomo e polpo. I cefalopodi sembrano essere, cioè, quel che di più simile a un alieno potremmo incontrare. Un alieno molto simile all’uomo, per alcuni versi.
Dopo una breve “Storia degli animali” (A History of Animals, p. 15) che fornisce al lettore un’agile cornice evolutiva e descrive l’emergere degli organismi pluricellulari, del sistema nervoso e della simmetria corporea bilaterale, l’autore si concentra sull’evoluzione e sulle caratteristiche dei cefalopodi (Mischieff and Craft, p. 43), la cui storia è, in parte, la storia dei molluschi – il loro phylum. Durante il Cambriano i molluschi si dotarono di un esoscheletro, detto conchiglia, a seguito delle nuove condizioni ambientali e dei nuovi predatori che popolavano i loro ambienti e, sotto la conchiglia, si sviluppò una piccola appendice muscolare, una sorta di “piede”, che permise loro di muoversi sul fondale marino. Tuttavia, a un certo punto, i cefalopodi riuscirono a staccarsi dal fondale producendo una certa quantità di gas che, trattenuta nella conchiglia, li trasformò in piccoli dirigibili, mentre il piede, libero, diventò un sifone grazie a cui l’animale poté cominciare a muoversi in diverse direzioni invece di galleggiare o farsi trasportare dalle correnti. In seguito, il piede si sviluppò ancora, ed emersero tentacoli dotati di uncini capaci di manipolare e afferrare oggetti e altre creature. In altre parole, da prede i cefalopodi si trasformarono in predatori e i loro movimenti si fecero sempre più complessi finché questi animali persero l’esoscheletro ottenendo, con ciò, un’impareggiabile agilità e flessibilità. Il polpo, per esempio, non ha attualmente alcuna parte ossea né cartilaginea, tranne il becco, e può quindi introdursi e nascondersi in cavità minuscole, passando attraverso fori del diametro del suo occhio. Tuttavia, contemporaneamente a questa evoluzione corporea, i cefalopodi furono protagonisti di un’evoluzione ancora più stupefacente, ossia quella del loro sistema nervoso e del loro comportamento, di cui l’autore riporta esempi esilaranti, come i dispetti e le malefatte intenzionalmente compiute da questi astuti animali in laboratorio (From White Noise to Consciousness, p. 77). Di primo acchito, i polpi sembrano essere molto intelligenti e la loro è un’intelligenza ingegnosa ed eccentrica, tuttavia l’osservazione del comportamento non è l’unico modo per determinare l’intelligenza di un animale. Un’altra via è quella di valutare la grandezza del suo cervello e il numero di neuroni che lo compongono, paragonandone le prestazioni a quelle di animali filogeneticamente a noi più vicini, come i mammiferi e, nello specifico, le scimmie. Nel caso dei polpi, tuttavia, sebbene le dimensioni del cervello siano fuori misura rispetto agli altri invertebrati e il numero di neuroni sia estremamente elevato (500 milioni, all’incirca come un cane), sorge un’affascinante difficoltà: il sistema nervoso dei polpi è organizzato in un modo totalmente diverso rispetto a quello dei vertebrati, a tal punto diverso da scardinare la stessa concezione di mente/corpo. Se nei cordati (pesci, rettili, uccelli e mammiferi) il sistema nervoso è composto da un fascio di nervi che corre lungo il corpo e da un cervello sviluppatosi a una delle sue estremità, il sistema nervoso dei cefalopodi è invece meno centralizzato. Soltanto la metà dei loro neuroni si trova nel cervello, l’altra metà si trova nei tentacoli, che sono perciò parzialmente autonomi: il polpo insomma, suggerisce Godfrey-Smith, “lives outside the usual mind/body divide” (p. 76) e questa circostanza è uno dei molti motivi per cui lo studio di questi animali potrebbe gettar luce sul problema della coscienza. D’altro canto, un altro motivo corrisponde alla teoria più propriamente filosofica del libro, una teoria che dipende dall’affascinante capacità cromatica dei cefalopodi e dalle peculiarità linguistiche della mente umana. Da un lato, infatti (Making colors, p. 107), i cefalopodi presentano un corpo e soprattutto una cute che può essere paragonata a uno schermo ad altissima risoluzione, capace di riprodurre una varietà straordinaria di colori, sequenze e pattern cromatici che solo in parte hanno la funzione di comunicare con i loro simili o di permettere una mimetizzazione con l’ambiente marino. Dall’altra (Our Minds and Others, p. 137), l’uomo ha sviluppato la capacità di comunicare a un livello di complessità unica attraverso il linguaggio, ma questo tratto, secondo Godfrey-Smith e altri autori da lui citati, non ha questa unica funzione. Il linguaggio è uno strumento importantissimo per il pensiero stesso e per decenni si è persino pensato che il linguaggio complesso fosse la condizione di possibilità del pensiero complesso. Così non è, come suggeriscono numerosi studi citati dall’autore, e tuttavia il linguaggio resta utile a organizzare le idee e il pensiero, soprattutto nella sua forma di inner speech, quel linguaggio mentale che nessuno può davvero sentire – e talora controllare – ma che si fa silente flusso di pensieri in grado di trasportare informazioni e renderle disponibili al soggetto. Emerge una somiglianza fra la mente umana e la mente dei cefalopodi: se la nostra complessa attività mentale si manifesta attraverso questo continuo e privato flusso di pensieri, l’attività interna dei cefalopodi si manifesta tramite un continuo flusso cromatico, un incessante variare di colori e forme, una sorta di “sinfonia” di sfumature portatrici di significati interiori e privati. Perché privati? Perché, inaspettatamente, i cefalopodi non vedono i colori e così al “mental chatter” umano corrisponderebbe una sorta di “chromatic chatter”, un flusso di informazioni continuo, testimone di una brulicante, quanto forse incomunicabile, attività interiore: “There’s a simple social life, hence less to say, but such extraordinary things expressed nonetheless” (pag. 133).
La concezione di mente che emerge dal testo di Godfrey-Smith è quindi connotata in senso evolutivo: la coscienza non è un fenomeno univoco formatosi una volta per tutte, bensì una struttura biologica variegata e multiforme, e non è prerogativa dell’uomo, né dei mammiferi, né dei vertebrati. Ridimensionatane la nozione, l’autore può riconoscere versioni di coscienza non-umane, tracciando una sorta di storia che va dalle sue forme più elementari, definite metaforicamente “white noises”[3], fino alla coscienza propriamente detta degli uomini. “Evolution built minds twice” (pag. 9): la coscienza non è un fenomeno inatteso e anomalo, bensì uno strumento adattivamente utile, essenziale anzi al comportamento complesso, innegabilmente dimostrato dai polpi. Godfrey-Smith ci conduce ad Octopolis (Octopolis), l’anomalo sito australiano che ospita da anni delle piccole comunità di polpi, animali normalmente solitari: i polpi giocano, dimostrano grande curiosità, usano strumenti, li smontano, li rimontano, se li tirano addosso, riconoscono i loro conspecifici, così come le persone, e vi interagiscono in modi non triviali, sviluppando anzi spiccate simpatie o antipatie. Come la vita, dunque, anche la mente sembra nata negli oceani, e nonostante si tratti di una mente diversissima, quasi aliena, mai quanto grazie alla lettura di questo libro ci sembrerà vicina e familiare.
di Erica Onnis
[1] Cfr. fra gli altri Allen, Colin and Trestman, Michael, "Animal Consciousness", The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Winter 2017 Edition), Edward N. Zalta (ed.), https://plato.stanford.edu/archives/win2017/entries/consciousness-animal; Ârhem, P., & Liljenström, H., & Lindahl, B. I. B. (2002). Evolution of Consciousness: Report of Agora Workshop in Sigtuna, Sweden, August 2001. Journal of Consciousness Studies, 9, 81–84; Barron, A.B. & Klein, C. (2016). “What insects can tell us about the origin of consciousness.”, Proceedings of the National Academy of Sciences, 113, pp. 4900-4908; Brandon, R. (1990). Adaptation and Environment. Princeton, NJ: Princeton University Press; Browne, D. (2004). Do dolphins know their own minds? Biology & Philosophy, 19, 633–653; Bronfman, Z. Z., Ginsburg, S., & Jablonka, E. (2016). “The Evolutionary Origin of Consciousness.”, Journal of Consciousness Studies, 23(9-10), pp. 7–34; Cabanac, M., & Cabanac, J., & Paren, A. (2009). The emergence of consciousness in phylogeny. Behavioural Brain Research, 2(198), 267–272; Dennett, D. (2016). From Bacteria to Bach and Back. The Evolution of Minds. New York: W. W. Norton & Company; Merker, B. (2005). “The Liabilities of Mobility: A Selection Pressure for the Transition to Consciousness in Animal Evolution.” Consciousness and Cognition, 14, pp. 89–114.
[2] Nagel, T. (1974). “What Is It Like to Be a Bat?”, The Philosophical Review, 83(4), 435-450
[3] Il riferimento qui è a una metafora usata da Simona Ginzburg ed Eva Jablonka, cfr. S. Ginzburg, E. Jablonka, The Transition to Experiencing: II. The Evolution of Associative Learning Based on Feelings, Biological Theory 2(3) 2007, 231–243
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Corpi che non contano. Judith Butler e gli animali
Recensioni / Dicembre 2015Vengono smembrati, disossati, cucinati e infine divorati. Vengono sfruttati, vivisezionati, modificati e poi sacrificati. Sono i corpi animali, i corpi che (ancora) non contano – o meglio: contano in termini nutritivi, economici e scientifici; contano, insomma, da un punto di vista antropocentrico. Sono materia prima, corpi senza vita che l’uomo plasma come vuole e di cui non piange le uccisioni. Sono piccoli blocchi, mattoncini di carne sui quali l’uomo ha fondato il suo impero, edificato e arroccato su principi di naturalità che soltanto oggi, con immensa lentezza e fatica, iniziano a essere minimamente scalfiti. La messa in discussione dei ruoli assegnati sulla base del naturalismo è un processo complicato ma necessario, in quanto mina la binarizzazione gerarchizzante di base: natura da una parte, cultura dall’altra. Compiere questo primo ma fondamentale passo porta alla ridefinizione dei ruoli svolti dagli esseri, abolendo l’assegnazione degli stessi “per natura” e sviluppando al contempo nuove concezioni e definizioni: ruolo come dimensione in cui muoversi e agire, ruolo come spazio in cui si fa e si disfa, ruolo come luogo libero che accoglie la performance dell’animale, umano e non. Il volume collettaneo Corpi che non contano. Judith Butler e gli animali (Mimesis, 2015) si pone l’obiettivo di testare, come annuncia provocatoriamente il curatore Massimo Filippi nell’introduzione, il pensiero di Judith Butler sugli animali. Se la domanda cardine del pensiero butleriano è «A chi spetta una buona vita?», quale lavoro filosofico meglio del suo può essere utile da incorporare negli Animal Studies? Nonostante la pensatrice americana non abbia mai esteso il suo ragionamento agli animali non umani, all’interno dei suoi studi sono molteplici gli strumenti e i concetti potenzialmente utili (vita precaria, performatività, lutto…) alla demolizione delle binarizzazioni oppositive e al riconoscimento dell’altro non umano. Nella breve intervista presentata all’interno del volume, è la stessa Butler a elogiare i movimenti antispecisti per lo sforzo che stanno compiendo in questa direzione: «Sono convinta che questi movimenti si stiano sforzando di mettere in rilievo le reti di interdipendenza che normalmente non vengono riconosciute». Non resta dunque che limare le derive antropocentriche del pensiero butleriano e inaugurare nuove strade che ci portino lontano dalla norma vigente, mettendola in discussione come i movimenti femministi e queer hanno fatto nei decenni passati nei confronti del pensiero eteronormato, riscuotendo successi e raggiungimenti filosofici, sociali e mediatici allora insperati.
Quando il 26 ottobre 2015 l’International Agency for Research on Cancer – agenzia facente parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità – diffonde un comunicato con cui informa che le carni rosse sono probabilmente cancerogene e le carni rosse lavorate (insaccati e salumi) sono sicuramente cancerogene, un brivido di inquietudine – nella maggioranza dei casi carico di inesattezze scientifiche e macchiato di qualunquismo e semplificazioni – getta nello scompiglio l’opinione pubblica. Il dibattito che ne consegue è, ancora una volta, unidirezionale, tecnoscientifico e antropocentrico, ma permette di mettere in luce alcuni aspetti discussi in Corpi che non contano. La reazione alla diffusione del rapporto dello IARC infatti mette in evidenzia ciò che nell’ultimo saggio Federico Zappino definisce “norma sacrificale”. Si tratta della norma che, ancora più di quella eterosessuale, è stata forclusa, resa non evidente, inintelligibile. È il sacrificio perpetuo di miliardi di animali non umani, un sacrificio dal quale è complicato liberarci se si tengono presenti i desideri che esso soddisfa (il consumo di carne a tavola, per esempio) e la soggettivazione di cui è parte integrante. Come liberare l’uomo da un desiderio senza doverlo castrare e reprimere, si chiede Zappino? Seguendo le orme di Foucault, è bene lasciare spazio a nuovi desideri, creativi e fluidi, che possano accompagnare in modo libero la critica alla norma vigente, dando vita a nuove dimensioni da sperimentare.
Quando la norma resiste agli scossoni – come ha dimostrato la reazione al comunicato dell’OMS, veicolata attraverso messaggi pregni di “orgoglio carneo” e talvolta venati da caustico umorismo – allora è necessario intaccarla alla radice; questo è l’obiettivo che si pongono James Stanescu e Richard Iveson, che firmano un saggio a testa nel volume. Entrambi pongono l’accento sull’errore di considerare l’animale quale pre-condizione dell’umano. Si tratta di uno scivolone che coinvolge anche Judith Butler in Frames of war, in cui ancora una volta viene promulgata un’idea profondamente umanista e fondata su quell’eccezionalismo umano che dovrebbe essere la prima barriera da abbattere per intavolare una discussione critica sul rapporto interspecifico. In quest’ottica, lo stesso concetto di umano diventa norma, escludendo tutto ciò che non rientra in questa categoria dalla considerazione e relegandolo a un “grado zero” (l’animalità) su cui fondare il dominio dell’uomo sul mondo. La carne degli animali è quindi soltanto meat [carne morta] e non flesh [carne viva], è altro da noi umani, è soltanto materia inerte potenzialmente cancerosa – salsicce, wurstel, salumi, braciole, costolette – e, soprattutto, non è meritevole di lutto. La morte dell’animale per mano umana non è, dunque, omicidio, cioè morte degna di essere compianta, ma mera uccisione, morte senza ricordo, perché dovuta, necessaria e, ovviamente, naturale.
Accanto al concetto di lutto, a lungo esplorato da Butler nel corso della sua carriera, si affianca quello di vita precaria, punto cardine nell’applicazione del pensiero butleriano agli Animal Studies secondo Stanescu. La precarietà – essendo prima di tutto una condizione collettiva e non individuale – pone l’accento sulle connessioni e sulla relazione ed è, secondo Butler, un luogo da cui partire per riorganizzarsi e non uno stadio da superare. Inoltre, la precarietà è sia un luogo che una questione ontologica; un concetto cruciale ma da cui non dobbiamo difenderci, perché la minaccia reale è l’immunità con cui schermiamo la precarietà stessa, operando processi di disconoscimento nei confronti dell’Altro. «Tramite un rifiuto di affrontare la nostra finitudine corpeizzata e condivisa», scrive Stanescu, operiamo la prima spaccatura che ci separa dal bios dell’animale non umano. Solo muovendo dalla nostra precarietà possiamo comprendere che la carne che consumiamo e sfruttiamo in molteplici modi prima di essere lavorata (e diventare cancerogena) si muove, si nutre e si riproduce: è viva, ed è animale tanto quanto la nostra.
Ogni anno su questo pianeta vengono uccisi circa centocinquanta miliardi di animali non umani. Dati simili sono spesso inintelligibili, nascosti agli occhi dei più e radicati profondamente nella norma sacrificale. Come ricorda Marco Reggio nel suo intervento in Corpi che non contano, il pensiero butleriano può essere fondamentale per portare alla luce i rapporti di interdipendenza fra uomo e animali non umani e per mettere in discussione il concetto stesso di umano e il suo eccezionalismo. Fra le maglie della rete che tenta di opprimere e nascondere la solidarietà interspecifica, si fanno strada studi – come questo – che portano a galla verità soggiacenti, da sempre presenti ma, speriamo, ancora per poco ignorate.
di Danilo Zagaria