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Heidegger e l’inizio della filosofia occidentale
Recensioni / Febbraio 2023All’interno del pensiero di Heidegger, indubbiamente, quello relativo alla Kehre è sempre stato oggetto delle più numerose critiche, in particolare relativamente ad un ritorno – dai tratti considerati spesso esoterici – al pensiero dei primi pensatori, i presocratici. La recente traduzione italiana del xxxv volume della Gesamtausgabe, intitolata L’inizio della filosofia occidentale. Interpretazioni di Anassimandro e Parmenide, edita da Adelphi nel 2022, per molti versi, permette un diverso approccio. Innanzitutto, il corso del 1932 su Parmenide ed Anassimandro si colloca in una posizione importante all’interno del Denkweg heideggeriano: è subito successivo ad alcuni importanti testi che segnano il passaggio al pensiero della Kehre; soprattutto, nei due anni precedenti, Heidegger scrisse la conferenza del 1930 Dell’essenza della verità (Heidegger 1987, pp. 133-57) da cui poi trasse il corso dell’anno successivo (Heidegger 1997). Ma il testo è anche precedente a quello del 1935, Introduzione alla metafisica (Heidegger 2014a), il quale rappresentava finora la prima e decisiva presa in considerazione del pensiero pre-platonico, in particolare di Parmenide ed Eraclito. Prima di questo testo, come nota il curatore all’edizione italiana (Heidegger 2022, p. 14) i riferimenti sono brevi e sporadici, risalenti principalmente ad un corso del 1922 (Heidegger 2005a, pp. 209-31) e ad uno del 1926 (Heidegger 2000, pp. 137-46; 331-33). Se il pensiero heideggeriano fino al 1927, con Essere e Tempo, si muove nei riguardi della filosofia antica principalmente seguendo le orme di Aristotele (Volpi 2010), e se la Kehre inizia a partire dal 1930 in direzione dell’ἀλήθεια ( Heidegger 1987, pp. 133-157) con la critica alla dottrina platonica (Heidegger 1987, pp. 184-192), in L’inizio della filosofia occidentale Heidegger mostra l’aspetto più prettamente positivo della Destruktion della storia dell’ontologia (Heidegger 2005b, pp. 33-40), aprendosi per la prima volta ed in maniera decisiva al pensiero di Parmenide e Anassimandro, che ritorneranno spesso nei testi successivi.
Il testo consta di tre parti di cui la prima e la terza consistono nelle interpretazioni puntuali rispettivamente di Anassimandro e Parmenide, mentre l’esegesi svolta nella sezione centrale, di natura più ampia, offre la prospettiva da cui inquadrare le altre due. Della lettura di Anassimandro – qui interpretato per la prima volta –, ciò che risulta particolarmente interessante è la trattazione più ampia e piana dei frammenti rispetto al Detto di Anassimandro, comparso solo nel 1946, contenuto in Holzwege (Heidegger 2014b, pp. 379-441). In quest’ultimo testo, infatti, Heidegger si concentra solamente sulla parte centrale del frammento – «κατὰ τὸ χρεών· διδόναι γὰρ αὐτὰ δίκην καὶ τίσιν ἀλλήλοις τῆς ἀδικίας» (A 1 DK) – ritenendo le altre non affidabili (pp. 402-3); in L’inizio della filosofia occidentale il commento è completo (Heidegger 2022, p. 32), aprendo interessanti possibilità di confronto tra i due testi. Nel Detto di Anassimandro l’intero lavoro ermeneutico ottiene una propria dimensione nella traduzione di “τὸ χρεών” – «il primissimo nome per il pensato ἐόν degli ἐόντα» (p. 429) – in Brauch, pensando attraverso di esso l’Evento, la dinamica che rapporta l’Essere e l’uomo. Nel nostro testo, invece, la parte su Anassimandro si conclude sull’ultima parte tràdita del frammento, quindi sul concetto greco di χρόνος, un tempo che «non è per nulla solo la cornice dell’ordine della successione» (Heidegger 2022, p. 48) – ossia il risultato di una comprensione dell’essere a partire dalla sua sostanzialità semplicemente-presente – ma al contrario come ciò che è capace di «assegnare di volta in volta all’essere la sua “sistemazione” (Taxe)» (p. 51), cioè l’essere dell’ente. Questo aspetto rimanda all’ultimo termine analizzato del pensatore di Mileto, “τὸ ἄπειρον”, che – in un interessante utilizzo della semantica del Riß (pp. 58-64) centrale nell’Origine dell’opera d’arte (Heidegger 2014b, pp. 5-89) – riconduce alla dinamica della differenza ontologica, «la più originaria che in assoluto possa darsi» (Heidegger 2022, p. 64).
La parte dedicata a Parmenide, la terza, assume un ruolo ancora più importante per quando riguarda i successivi sviluppi del pensiero heideggeriano: rispetto agli altri due “pensatori iniziali”, Eraclito e Anassimandro, Parmenide è sicuramente quello che avrà una rilevanza maggiore, sia per numero di testi dedicatigli, sia per la sua presenza in quelli più teoreticamente decisivi, tutti incentrati principalmente sul frammento «τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι» (fr. 3 DK), tramite cui Heidegger tenterà di illuminare la co-appartenenza di essere e pensiero (Heidegger, 2009; 2014c pp. 158-75; 1999). Ciò che risulta interessante della parte dedicata a Parmenide è che qui Heidegger traduce e commenta tutti i frammenti superstiti del poema del filosofo di Elea, elaborando una struttura interpretativa che, seppur guidata dalle necessità di un corso universitario, colpisce per la complessità e il respiro ampio, elementi che nelle interpretazioni successive rimarranno in ombra. Di fronte all’impossibilità di un riassunto esaustivo di questa parte, che si mostrerebbe incapace di offrire l’esperienza di un tale lavoro, risulta più proficuo illuminare alcuni aspetti centrali. In particolare, il lavoro si muove inizialmente a partire da quella che Heidegger chiama «la tesi originaria» (Heidegger 2022, p. 208) di Parmenide – appunto il fr. 3 – già in queste pagine esplicitamente interpretata alla luce della reciproca co-appartenenza di essere e pensiero (pp. 224-5). Questo aspetto, quasi trent’anni dopo, assumerà una centralità fondamentale, in quanto riletto alla luce dell’Evento e alla sua connessione con il Ge-stell (Heidegger 2009, pp. 27-51). Oltre a questo primo aspetto, centrale come si è potuto vedere, per comprendere la genesi di alcuni dei concetti centrali dei testi dell’ultimo Heidegger, meriterebbero ulteriori analisi – qui impossibili da approfondire ma tuttavia importanti da rilevare – le due seguenti tesi che Heidegger evince dal testo: quella “essenziale”, secondo cui «l’essere è assolutamente non-nullo» (pp. 203-4); ed infine quella “temporale”, per cui l’essere, senza «parlare di atemporalità o di eternità […] sta in relazione con il presente, e solo con esso» (p. 207). Il tentativo che si prospetta in queste pagine sarà proprio quello di comprendere il legame reciproco tra queste tesi, attraverso un’analisi che culminerà nella problematizzazione dei concetti di presente e presenza, Gegenwart e Anwesenheit, i quali necessiteranno, come si è mostrato con Anassimandro, di un confronto con la temporalità. Che l’obbiettivo teorico di Heidegger sia quello di sottrarre Parmenide alla tradizionale interpretazione che lo vede come il sostenitore di un’ontologia statica ed immobile, risulta chiaro, oltre che dallo sviluppo delle tre tesi, soprattutto da un ulteriore aspetto che vale la pena di approfondire brevemente. Come appare nelle annotazioni redatte per la preparazione del corso (p. 310) Heidegger sottolinea molto spesso il legame tra ἀλήθεια e δόξα, anch’esso aspetto che non ricomparirà nei lavori successivi. Nonostante nel testo la dea intimi a Parmenide di evitare la via dell’opinione a favore di una verità fuori dal tempo, Heidegger rilegge i passi alla luce di una «coappartenenza essenziale» (p. 153) dei due termini: «chi vuole comprendere concettualmente la verità deve comprendere la non-verità, non può eluderla, bensì accogliere entrambe nel loro più intimo confronto reciproco» (p. 152). Tale è esattamente la dinamica che Heidegger cercherà di chiarire con il termine ἀ-λήθεια, dis-velamento. L’importanza di Parmenide dunque si mostra soprattutto in quest’ultimo passaggio: «la via di Parmenide conduce fuori all’Aperto, in quel Libero dove si libera anzitutto e per la prima volta l’intera antiteticità di verità e non-verità» (p. 153).
Ciò mostra come la lettura dei presocratici – seppure nell’aspetto didattico di un primo passo – rappresenti non solo una continuazione, come affermato in precedenza, del progetto mai smentito della Destruktion, ma altresì un approfondimento del problema della verità su cui si innesta la Kehre, tema la cui importanza veniva già sottolineata in Essere e tempo – in particolare nel paragrafo 44, il quale non a caso si apre con Parmenide – insieme alla necessità di un ritorno al pensiero pre-platonico (Heidegger 2005b, pp. 258-77). L’inizio della filosofia occidentale inoltre, proprio per il suo carattere di inizio, contiene un’ulteriore parte, quella intermedia, qui lasciata volutamente per ultima, che affronta in maniera esplicita numerose delle aporie e problematiche in seguito riconosciute in questo ritorno agli inizi. In fondo, questo tentativo di ritorno all’inizio, ha spesso suscitato il seguente interrogativo: «non si tratta forse di dogmi calati dall’alto, capricci di un incontrollabile arbitrio […]?» (p. 67). Come Heidegger stesso aggiunge poi: «due millenni e mezzo non si possono certo saltare semplicemente tenendo un corso universitario» (p. 68). L’idea di un restauro dell’origine e di un culto dell’autentico – seppur molto presenti nella critica (Adorno 2016) – non sono mai stati lo scopo del pensiero di Heidegger: «l’accesso all’“inizio” ci rimane sbarrato […]. Non v’è arte dell’interpretazione che ci consenta di superare l’abisso dei millenni» (p. 70) o, come ripeterà pochi anni dopo a riprova dell’importanza di questo aspetto: «sottrazione di un mondo e dissoluzione di un mondo non sono mai reversibili» (Heidegger 2014b, p. 34). Il tentativo di pensare la storia dell’essere non si riduce ad una storia del suo allontanarsi da un’origine piena, disponibile, a cui bisognerebbe fare ritorno attraverso pochi frammenti di un pensatore di cui ciò che abbiamo «è poco, e quel poco è incompleto» (Heidegger 2022, p. 32), bensì sta nella sfida rischiosa, che il testo incarna in pieno, di riscoprire nuove strade per il pensare, un pensare «non dell’uomo in assoluto e in generale – che non c’è mai e in nessun luogo» (Heidegger 2022, p. 89), bensì quello di un’esistenza concreta, storica, che prende le mosse sempre Aus der Erfahrung des Denkens (Heidegger 1986), dall’esperienza del pensiero.
di Pietro Prunotto
BIBLIOGRAFIA
Adorno, T.W. (2016). Il gergo dell’autenticità. Sull’ideologia tedesca. Trad. it. di P. Lauro. Torino: Bollati Boringhieri.
Heidegger, M. (1986). Aus der Erfahrung des Denkens. Stuttgart: Neske.
Id. (1987). Segnavia. A cura di F. Volpi. Milano: Adelphi.
Id. (1997). L’essenza della verità. Sul mito della caverna e sul «Teeteto» di Platone. A cura di F. Volpi e H. Mörchen. Milano: Adelphi.
Id. (1999). Parmenide. A cura di F. Volpi. Milano: Adelphi.
Id. (2000). I concetti fondamentali della filosofia antica. A cura di F. Volpi. Milano: Adelphi.
Id. (2005a). Phänomenologische Interpretationen ausgewählter Abhandlungen des Aristoteles zu Ontologie und Logik, in Gesamtausgabe (LXII). A cura di G. Neumann. Frankfurt a.M.: Klostermann.
Id. (2005b). Essere e Tempo. A cura di F. Volpi. Milano: Longanesi.
Id. (2009). Identità e differenza. A cura di G. Gurisatti. Milano: Adelphi.
Id. (2014a). Introduzione alla metafisica. A cura di G. Vattimo. Milano: Ugo Mursia.
Id. (2014b). Holzwege. Sentieri erranti nella selva. A cura di V. Cicero. Milano: Bompiani.
Id. (2014c). Saggi e discorsi. A cura di G. Vattimo. Milano: Ugo Mursia.
Id. (2022). L’inizio della filosofia occidentale. Interpretazione di Anassimandro e Parmenide. A cura di P. Trawny e G. Gurisatti. Milano: Adelphi.
Volpi, F. (2010). Heidegger e Aristotele. Roma-Bari: Laterza.
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Roberto Calasso – L’innominabile attuale
Recensioni / Novembre 2017L'innominabile attuale, uscito quest’anno per i tipi di Adelphi, è l'ultimo anello della collana di opere scritte da Roberto Calasso. Il titolo riprende un'espressione che si trova nella prima pubblicazione dell'autore, La rovina di Kasch (Adelphi, 1983), sancendo così un collegamento tra l'inizio e la provvisoria fine della sua vasta produzione. Così come l'attuale di cui si occupa il testo, altrettanto sfuggente è l'opera di Calasso, irriducibile a un genere e a uno stile. Anni fa Pietro Citati, recensendo il suo I quarantanove gradini (Adelphi, 1991), ebbe a definirlo «uno scrittore imprendibile: sta celato nei suoi libri, come un animale occulto, enigmatico e pericoloso. […] Se tutto, nella sua mentalità e nella sua educazione, lo predisponeva a essere un saggista filosofo, il caso o gli astri o altri libri hanno voluto che egli diventasse molto di più: uno scrittore» (La Repubblica, 3 novembre 1991). Interrogato in merito al crogiolo di saperi e parole che appronta nelle sue opere, Calasso si è espresso così: «in rapporto a quello che scrivo l'espressione di Nietzsche pensiero impuro mi sembra una buona approssimazione» (“Il Venerdì”, 15/7/2016). Indubbiamente un'eco nietzscheana (non a caso l'opera omnia di Nietzsche è stata una delle prime pubblicazioni di Adelphi, la casa editrice di cui Calasso è proprietario e direttore) si avverte anche nell'Innominabile attuale: nello stile ricercato e potente, tendente all'aforisma; nello sguardo acuto, allo stesso tempo disincantato e meravigliato, che si posa sulle cose del mondo. Si potrebbe definire l'opera di Calasso un esercizio di pensiero, forse un po' nascosto, se, come l'autore stesso scrive, «al pensiero sarebbe quanto mai utile un periodo di occultamento, di vita clandestina e camuffata, da cui tornare a emergere in una situazione che potrebbe avvicinarsi a quella dei presocratici» (2017, p. 47).
Il libro è diviso in tre parti. La prima, Turisti e terroristi, è dedicata al mondo contemporaneo, sfuggente al punto da provocare la sensazione di non sapere dove si stanno mettendo i piedi, «l'opposto del mondo che Hegel intendeva stringere nella morsa del concetto» (p. 13). L'uomo che abita l'innominabile attuale, definito da Calasso Homo secularis, ha smarrito non tanto la religione quanto il brivido del sacro, il senso del divino. Ha sperimentato un alleggerimento da tutti i vincoli, senza però riuscire a viverlo come una possibilità liberatoria, ma avvertendo piuttosto un costante senso di minaccia, gravato dal peso dell'inconsistenza.
C'è però un'eredità delle epoche passate talmente potente e cruciale da non riuscire a tramontare: il sacrificio. Presenza costante nell'opera di Calasso, in questo libro viene accostato al fenomeno del terrorismo. Negli atti terroristici dei fondamentalisti islamici, osserva l'autore, è l'attentatore stesso a essere la vittima sacrificale, mentre la popolazione che viene uccisa è il mezzo per compiere il sacrificio. Secondo Calasso il terrorismo jihadista è compiuto in odio alla società secolare, che è dilagata nel mondo islamico portando con sé un frutto avvelenato: la pornografia. La possibilità improvvisa di vedere milioni di corpi nudi femminili che fanno sesso «fu un oltraggio estremo e una attrazione indominabile», capace di scatenare in modo incontrollato la pulsione di morte, più che quella erotica. La convergenza tra culture oggi infatti si verifica, secondo l'autore, proprio attraverso la pornografia, e ancor più con il turismo. In entrambi i mondi, nei quali le azioni sono prevedibili e ripetitive, l'estetica è omologata, l'esecuzione meccanica prevale sul dubbio. Le pagine dedicate al turismo, che denunciano come l'esperienza dell'altro venga sottratta allo shock dell'inatteso e addomesticata, suonano a dire il vero un po' banali.
Osservazioni penetranti riguardano invece il pensiero dell'età secolare, se di pensiero si può parlare. La società secolare, privata della possibilità di rivolgersi al trascendente, ha finito per adorare se stessa; un'ulteriore trasformazione del sacrificio è avvenuta attraverso l'esperimento: l'estensione del campo dello sperimentabile all'intero materiale umano ha condotto agli esiti drammatici del totalitarismo. La stessa logica si ritrova in una nuova «religione secolare», il transumanesimo, che considera la morte alla stregua di un problema da risolvere. Una delle voci più forti tra quelle pronunciate dall'Homo secularis è oggi progressista e umanitaria, talvolta anche spirituale, ma espressione di un umanitarismo e di una spiritualità infondati, retorici, dimentichi delle proprie origini. Della stessa mancanza di fondamento soffre del resto la democrazia, che risiede unicamente in un insieme di procedure, ma è la sola forma di governo capace di rendere sopportabile la convivenza umana. La società secolare, che esalta l'immediatezza e la disintermediazione, mette a rischio il metodo democratico, basato, come del resto l'intera esistenza, sulla mediazione.
Calasso si sofferma poi sulla «religione dell'informazione», l'ossessione per i bit e gli algoritmi che pervade la nostra era, condivisa da buona parte delle élites imprenditoriali e scientifiche. L'informazione, che è necessariamente una grandezza discreta, non potrà mai chiarire il mistero della coscienza, che è invece situata al confine tra discreto e continuo, ma certamente è irriducibile a qualsiasi logica autistica e binaria. Come nel caso del turismo, anche nell'era informatica Calasso individua una minaccia alla possibilità del fare esperienza: «La digitabilità è il più grave assalto che abbia subito l'inclinazione a esporsi allo shock dell'ignoto» (p. 88).
Di fronte a tutto questo, secondo l'autore non resta che coltivare il proprio senso di non appartenenza, situandosi tra le pieghe della società, come «contemplanti nascosti e non riconosciuti», senza indulgere in lamentele che si rivelerebbero inconsistenti quanto la realtà di cui si dolgono. Una soluzione di ripiegamento individualistico, venata di pessimismo nei confronti dell'attuale, che lascia un po' a desiderare.
La seconda parte del testo, La Società Viennese del Gas ripercorre invece l'epoca che precede l'affermarsi dell'innominabile attuale: il periodo che va dal 1933 al 1945, in cui «il mondo ha compiuto un tentativo di autoannientamento, parzialmente riuscito». La storia viene ripercorsa attraverso una selezionata cronologia composta dalle testimonianze di scrittori e intellettuali: tra gli altri, Céline, Walter Benjamin, Brasillach, Ernst Jünger, Simone Weil, Klaus Mann, Curzio Malaparte, Vasilij Grossman. Sono le pagine migliori del libro: Calasso, attingendo alla sua sconfinata erudizione, riesce a dipingere un affresco inquietante e illuminante, impossibile da riassumere e tutto da leggere.
La terza e ultima parte, Avvistamento delle Torri, riprende un frammento di Baudelaire, in cui viene descritto un sogno, che è anche un triste presagio: un'immensa torre sta per cadere, è impossibile trovare l'uscita, ma nessuno sembra accorgersene, né sembra possibile avvertire alcuno.
L'innominabile attuale è una lettura che non lascia indifferenti; a suo modo, una testimonianza del fatto che lo «shock dell'ignoto», tanto caro all'autore, è possibile ancora oggi attraverso la fruizione di un prodotto culturale. Non mancano tuttavia le pagine in cui prevale uno sguardo elitario, ai limiti dello snobismo: questo accade quando lo sforzo di dare un nome alla contemporaneità, pure definita come inafferrabile, indulge in una solerzia eccessiva e quasi semplificatrice. Ciò di cui si avverte la mancanza, in fondo, è il gusto di cogliere l'innominabilità evocata nel titolo come qualcosa di misterioso, di irrisolto, ma foriero di possibilità inedite. Di certo il presente risulta irriducibile a visioni tranquillizzanti e lascia poco spazio a ogni ingenuo volontarismo progressista, ma non per questo deve essere ricoperto, con un opposto gesto di sottile moralismo, da un velo di negatività.
di Luca Pagano