La modernità di Nietzsche
Per capirci qualcosa di più del mondo in cui viviamo bisogna leggere Nietzsche. Sapere che il Fascismo di Mussolini e il Rock psichedelico di Jim Morrison sono nati nel segno del filosofo tedesco – se coerentemente o meno è un altro discorso – spinge in questa direzione, ed è il motivo dell’interesse di Maurizio Ferraris per questa figura e la ragion d’essere di Spettri di Nietzsche. Un’avventura umana e intellettuale che anticipa le catastrofi del Novecento (anche se i Doors più che una catastrofe sono una benedizione). Non c’è dubbio, il Novecento (ma anche questo primo scampolo di nuovo millennio) è un secolo nietzscheano, il secolo della volontà di potenza, quella volontà, essenza dell’individualismo, che contraddistingue i contemporanei – che cosa sarebbero altrimenti i Talent Show? È Ferraris stesso ad aprire il suo libro con questa precisazione, umanizzando e attualizzando – che più attuale non si può – il pensiero di un uomo che ha vissuto sulla sua pelle e sui suoi nervi il tempo che annunciava: «fuori dalle trincee la volontà di potenza è anzitutto volontà di presenza e ansia di riconoscimento. Nietzsche coglie, esprime e anzitutto incarna una caratteristica essenziale della modernità, l’aspirazione collettiva a essere straordinari» (p. 15). Perché «aveva ragione sua sorella Elisabeth, Fritz voleva diventare famoso, e lo desiderava con la stessa mancanza di decoro di un ammalato di celebrità» (p. 7). In una lettera a Paul Deussen dell’11 dicembre 1888 egli scrive che si sentiva «come se il destino dell’umanità fosse nelle [sue] mani» (p. 9). In un certo senso ci aveva preso. Considerato che oggi siamo ancora qui a parlare di lui, se avesse pensato e agito diversamente forse in questo momento ragioneremmo altrettanto diversamente.
Nietzsche, un’interpretazione
Ferraris – si avverte pagina dopo pagina – nutre un certo affetto per Nietzsche, come fosse un amico, forse vecchio rivale, comunque molto stimato. D’altronde non c’è filosofo del Novecento che non abbia fatto i conti con quest’uomo geniale. I conti, questo libro ne è la resa: Ferraris ripercorre l’intera vita filosofica del collega tedesco, i suoi lasciti, le sue micce, poi accese da qualcun altro, e la dinamite che è esplosa lontana dai suoi occhi. È lui, in fin dei conti, il padre del postmoderno, l’autore di quella frase: “non ci sono fatti, solo interpretazioni”, contro cui lotta il nuovo realismo ferrarisiano. Con questo concetto Ferraris ci mostra come per Nietzsche «la realtà [sia] socialmente costruita, nulla esiste fuori dal testo, il sapere è solo un effetto di potere, il mondo si guarda da infinite prospettive che corrispondono ai nostri bisogni vitali in conflitto tra loro, non ci sono cose in sé, ma solo in relazione a osservatori» (p. 83). È questo cambio di paradigma la vera catastrofe di cui parla Ferraris nel sottotitolo del libro? Quella da cui sono potute nascere tutte le catastrofi reali che hanno segnato il XX° secolo? E sarà davvero giunto il tempo di voltare pagina? Difficile a credersi. Ma come la mettiamo allora con il global warming, lo spread, il cancro, l’Olocausto? Sono solo interpretazioni?
Volontà di potenza e di politica
Anzitutto bisogna fare i conti col Nietzsche politico, una storia che non finirà mai, perché impossibile da chiarificare. Chi lo vuole di destra, ideologo del nazionalsocialismo di Hitler – o colui che contribuì alla sua nascita – e della sua sfrenata volontà di dominio; chi lo vuole invece di sinistra, rivoluzionario – non a caso le sue opere, oltre che in quella di Hitler, comparivano nella biblioteca di Mitterrand. Dice Lukács che gli «intellettuali potranno sostituire al socialismo l’annuncio di Zarathustra, cioè la promessa di un cambiamento ancora più grande e più indeterminato, di un futuro e di un dio a venire» (p. 45). Chi considera la sua nazificazione un errore dettato dal travisamento del suo pensiero allegorico o semplicemente dalle interpolazioni faziose apportate all’opera dalla sorella Elisabeth. Una cosa è certa, Nietzsche è morto nel 1900 e non ha mai sentito parlare di Hitler. Ciò, ovviamente, non significa che i nazisti non abbiano avuto alcun appiglio per rifarsi al padre di Zarathustra: Ferraris, considerate l’opera di Nietzsche, ci dice che era davvero reazionario, e che i pensieri di cui si appropriarono i nazisti non provenivano dalla tanto discussa e postuma Volontà di potenza, ma soprattutto dalle opere edite. In realtà ci dice anche che l’unica vera falsificazione della sorella è stata quella di spacciarsi per principale interlocutrice del fratello, quando invece lui la odiava. Come si sa, l’unica obiezione di Nietzsche all’eterno ritorno erano proprio loro, la madre e la sorella.
Per Ferraris «Nietzsche è stato tutto, tranne che un impolitico», i suoi «principi risultano iper-fungibili dal punto di vista politico, appunto perché l’essere diviene anzitutto un fare, un combattere, un trasformare. Il che, in una fase rivoluzionaria, può risultare allettante sia per una squadra di spartachisti che per dei Freikorps antibolscevichi» (p. 43). Inoltre «il pensiero di Nietzsche non porta a un prospettivismo radicale, bensì a una gerarchizzazione dei valori» (p. 130), perché per lui «[…] il vero filosofo è colui che forgia nuovi valori» (p. 131). Zarathustra/il superuomo ha trovato la verità, ovvero che non esiste verità, ma solo volontà di potenza. Di qui la sua autorità.
Nichilismo e imipramina
Il libro di Ferraris, che si muove a salti spaziali e temporali, in una connessione di idee trasformata in elegante opera letteraria, a un tratto ci proietta nel 1956, all’interno dell’ospedale di Münsterlingen, dove lo psichiatra Roland Kuhn stava scoprendo, per caso, l’effetto antidepressivo dell’imipramina. E se quello che Nietzsche chiamava “nichilismo” fosse stata solo una sorta di depressione curabile coi farmaci, si chiede provocatoriamente Ferraris? E se Nietzsche avesse incontrato Kuhn, oggi cosa leggeremmo sui libri di storia della filosofia? Di sicuro nel nichilismo di cui parla il filosofo tedesco c’è molto di suo, di quello che avvertiva dentro di sé – e qui siamo di nuovo a fare i conti con la modernità nietzschena di cui si parlava all’inizio.
Eterno ritorno, eterno disguido
A Silvaplana sulla soglia di una casa, nel 1993, Ferraris scoprì questa scritta in retoromanzo: “Tieu destin tũ poust amer e perfin sch’el es amer”. Bisogna amare il proprio destino anche se amaro. Ecco qui l’eterno ritorno, “la suprema formula dell’affermazione che possa mai essere raggiunta”, frutto della profonda trasformazione spirituale nietzscheana avvenuta nel 1881, appunto, a Silvaplana, vicino Sils Maria, in Svizzera. Ma quest’idea, ripresa dai greci e dal pensiero orientale, può avere una qualche scientificità? Borges, in Storia dell’eternità (1936), rifacendosi alle teorie degli insiemi di Cantor, prova a rispondere a questa domanda, concludendo che «se l’universo consta di un numero infinito di termini, è rigorosamente capace di un numero infinito di combinazioni; e la necessità di un ritorno viene annullata» (p. 135). Ferraris sembra concordare con Borges. Va però detto gli atomi dell’universo sono oggi valutati dalla scienza in 10 alla 80: numero altissimo, ma pur sempre finito, che non smentisce quindi l’ipotesi nietzscheana. Tuttavia l’eterno ritorno rimane una contraddizione all’interno del pensiero di Nietzsche, e questo Ferraris lo spiega bene: da una parte vuol essere l’abbandono di ogni finalismo, contro la teleologia occidentale, una proclamazione della libertà di movimento della Terra, astro tra gli astri; dall’altra però «propugna un finalismo iperbolico, per il quale il filosofo, in veste di istitutore di valori, “crea” – leggiamo nello Zarathustra, “Di antiche tavole e nuove” – “la mèta dell’uomo e dà alla terra il suo senso e il suo futuro”» (p. 140).
Che cos’è allora, per Nietzsche, l’eterno ritorno? È anche questo frutto della sua modernità, del suo essere interiore che non può che traboccare nel mondo per renderlo a sua immagine? Ferraris, candidamente, risponde: l’eterno ritorno è «una religione per il mondo secolarizzato, un mito qualunque, quasi un pretesto per predicare, di certo un gesto per scacciare l’orrore un po’ più in là» (p. 144).
Illuminismo + LSD = catastrofe
Un mito, appunto. Proprio come scrivono Adorno e Horkheimer in Dialettica dell’illuminismo (1947), l’“illuminismo nietzscheano” è un ritorno al mito, alla tragedia, al dionisiaco, volto a distruggere il nesso sapere-progresso-felicità figlio del racconto socratico riproposto nella modernità proprio dall’illuminismo “classico”, quello di Kant e Rousseau. Nietzsche, che detestava Rousseau, invece, guarda più a Sade, a Laclos, a Crébillon. La volontà di potenza è tutto quello che c’è da sapere per capire il mondo: «ogni forma di sapere va guardata con sospetto, appunto in quanto espressione di una qualche forma di potere» (p. 152), e quindi il sapere, che dovrebbe emancipare, produce allo stesso tempo potere, cioè subordinazione e dominio. La soluzione? Non sapere (ovviamente non alla maniera socratica), rituffarsi nel mito, nel dionisiaco perduto. Insomma, il Nietzsche che emerge qui non è un illuminista, ma un dispensatore di segreti per “imparare a vivere” secondo la sua “dottrina”. Altro che spronare a pensare con la propria testa!
E questo dionisiaco dove lo troviamo? Ferraris, ancora una volta, immagina gli effetti che avrebbe prodotto l’LSD, sintetizzato soltanto nel 1943 a Basilea (stessa città in cui venne concepita La nascita della tragedia) da Albert Hoffman, su Nietzsche. Ma dovremo accontentarci degli effetti, non affatto malvagi, prodotti su Jim Morrison, ma anche su Foucault.
Qui Ferraris azzarda e finalmente fa esplicito riferimento a quello a cui tutti noi pensiamo quando sentiamo pronunciare la parola catastrofe in riferimento al Novecento. Ovvero Hitler. Il sottotitolo del libro significa proprio quello che intuitivamente credevamo. È però al plurale – catastrofi – per cui riempitelo come preferite, avete l’imbarazzo della scelta. Ad ogni modo i nazisti, a Nietzsche, non “rubarono” solo concetti, ma anche la necessità dell’esperienza del superamento del limite razionale, verso l’immortalità (o la morte): «tra la patria mitica e la catastrofe il passo è breve, e se Hitler ha saputo incantare i tedeschi, e non solo loro, è perché nel suo orizzonte c’era qualcosa di straordinariamente simile al “corteo dionisiaco” di cui parla Nietzsche» (p. 179).
Ma le responsabilità di Nietzsche e di Hitler sono molto diverse fra loro; Ferraris lo mette in luce citando le parole di un uomo che ripugnava entrambi, Primo Levi: «[in Nietzsche] mi pare che non compaia mai il desiderio della sofferenza altrui. L’indifferenza sì […], ma mai […] la gioia per il danno del prossimo, né tanto meno la gioia del far deliberatamente soffrire. Il dolore del volgo […], degli informi, dei non-nati-nobili, è un prezzo da pagare per l’avvento del regno degli eletti; è un male minore […]; non è desiderabile in sé. Ben diversi erano il verbo e la prassi hitleriani» (p. 196).
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Spettri di Nietzsche non è un libro per chi è digiuno del pensiero del filosofo tedesco, che non saprebbe come raccapezzarsi tra gli sbalzi temporali di Ferraris, il quale mostra una profonda conoscenza delle tematiche che tratta. In realtà è proprio questo che rende la lettura stimolante: lo star dietro a un brillante incedere tra connessioni di idee di cultura “alta”, prettamente filosofico-accademica, e cultura pop. D’altronde, abbiamo imparato a conoscerlo, è esattamente questa la cifra di Ferraris.
di Stefano Scrima
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