Quanta confusione nel cielo della politica. Da alcuni anni a questa parte, dalla televisione ai giornali, passando per i social network, espressioni come ‘establishment’, ‘élite’ e ‘casta’ hanno ormai monopolizzato il dibattito pubblico. L’elenco potrebbe forse continuare, fino a comprendere le più elaborate ‘classe politica’, ‘classe dirigente’ e ‘classe dominante’. Sono le parole con cui siamo soliti etichettare i potenti, spesso con intento polemico, parole che tendiamo a confondere le une con le altre, quasi avessero lo stesso significato. Una simile superficialità sarebbe scusabile, non fosse che le categorie che utilizziamo sono le lenti con cui guardiamo la realtà: se non le ripuliamo con cura, potremmo non essere in grado di cogliere tutte le sfumature, o addirittura finire per vedere una cosa per un’altra.
Ce lo ricorda Giulio Azzolini, con il saggio Dopo le classi dirigenti. La metamorfosi delle oligarchie nell’età globale, pubblicato da Laterza nel 2017. Oltre a chiarire il significato delle espressioni sopra evocate, di pagina in pagina l’autore si propone di delineare il profilo odierno dei detentori del potere: obiettivo non semplice, per chi voglia andare al di là della chiacchiera quotidiana. Il percorso prevede due tappe fondamentali. In primo luogo, si tratterà di rispolverare una tradizione di pensiero come quella elitista, spesso trascurata dalla riflessione politica contemporanea, e fissare così alcune importanti coordinate teoriche. In secondo luogo, occorrerà scandagliare quel processo di crescente interdipendenza che è la globalizzazione, mettendone in luce soprattutto le implicazioni filosofiche. Perché le oligarchie sono sempre esistite e sempre esisteranno, spiega l’autore sulle orme di Aron, ma hanno assunto ai nostri giorni una peculiare fisionomia: quella dei gruppi d’interesse sul versante privato, quella dei capi e dei tecnici sul fronte pubblico. E se il tempo delle classi dirigenti, capaci di declinare la ricerca del profitto insieme all’interesse nazionale, sembra ormai appartenere a un passato lontano, ciò dipende proprio dalla logica dell’età globale.
Ma procediamo con ordine. La prima parte dell’opera è dedicata all’inquadramento storico e concettuale della teoria delle élites. Il nostro passa in rassegna gli italiani Mosca, Pareto e Michels, sottolineando l’istanza realistica alla base della loro riflessione. In Pareto, che per certi versi fornisce gli spunti più interessanti, troviamo un’ambiguità significativa: il termine ‘élite’ è neutro o valutativo? In altre parole, vuole semplicemente designare i vertici della piramide sociale, oppure mettere in rilievo le qualità eminenti di alcuni individui? La nozione rimane in bilico, sospesa tra il fatto e il valore. Ma non per molto, poiché l’ambivalenza verrà presto risolta dai successori, dagli interpreti statunitensi della teoria delle élites, i quali utilizzeranno il termine solo nella prima accezione, quella che Giovanni Sartori avrebbe definito «altimetrica» (2011, 101). Un esempio di questa letteratura può essere rintracciato in Charles Wright Mills, il quale sul finire degli anni Cinquanta denuncia l’esistenza di una élite del potere a un tempo economica, politica e militare, composta dalle alte sfere della società americana (1966, 9). Schierandosi contro tale tendenza, e anticipando un punto che riaffiorerà nelle ultime pagine del saggio, Azzolini ritiene che la nozione di ‘élite’ debba invece conservare una sfumatura valutativa, così da tornare utile a quanti volessero smascherare le pretese delle oligarchie in nome di un governo migliore della cosa pubblica. A ogni modo, Wright Mills rappresenta uno snodo cruciale anche per un'altra questione, che tanto appassionerà la politologia americana: quante sono le élites? Ce n’è davvero una soltanto, o piuttosto – come sosterrà tra gli altri Robert Dahl – ce ne sono molte, e in competizione le une con le altre? A seconda di come si risponderà, si sposerà la tesi monista o pluralista, ma soprattutto, ed è la cosa importante, si approderà a una visione antitetica della democrazia occidentale (Ferrarotti 1977, XII). A questo riguardo, quello proposto da Azzolini si configura come un pluralismo critico. Se infatti sono evidenti le fratture e i conflitti d’interesse al vertice della piramide, d’altra parte non può essere taciuta l’omogeneità culturale e ideologica, financo esperienziale, che si registra tra i suoi membri.
Dopo essere entrati nel merito della teoria delle élites, ed averne approfondito alcuni aspetti, si tratta ora di andare oltre. Di fare un passo ulteriore, verso l’elaborazione di una teoria delle classi dirigenti, che la scienza politica e la sociologia non avrebbero mai seriamente preso in considerazione, lasciando la questione alla storiografia (22). La ragione di una simile mossa risiede nel fatto che spostare il focus dalle élites alle classi dirigenti consente di riconoscere nell’età presente i segni di una profonda discontinuità storica. Ci vengono in aiuto Gramsci, Dorso e Aron. È in particolare da Guido Dorso, il meno conosciuto, che occorre ripartire. Perché nella sua riflessione troviamo una distinzione feconda, meritevole di essere sviluppata, tra ‘governo’ e ‘direzione’. Quest’ultima avrebbe una portata più generale, dal momento che la classe dirigente, comprendendo al suo interno anche una componente imprenditoriale, include la classe governante senza esaurirsi in essa. Ciò che la categoria di classe dirigente permette allora di tematizzare è la convergenza di pubblico e privato nel perseguimento di un obiettivo comune, l’interesse nazionale. Attenzione però: dire questo non significa affatto ignorare che l’alleanza tra le due istanze della classe dirigente, lungi dall’essere naturale, sia figlia di una «fase precisa della storia capitalistica» (35) che sembra oggi definitivamente eclissata.
Se ne è aperta un’altra, quella contemporanea, che non potrebbe essere più diversa. Nonostante fiumi d’inchiostro siano stati versati a tal proposito, Azzolini ritiene che sia opportuno tornare a ragionare sulla «logica dell’età globale» (39). In pagine densissime, dopo un confronto serrato con Sloterdijk, Deleuze e Farinelli intorno ai processi genetici della modernità, l’autore passa a interrogare l’epoca presente, avvalendosi di un prisma specifico, quello della sfera. La rappresentazione tabulare del mondo ha ormai fatto il suo tempo, occorre ripensare il mondo in termini sferici. Traendone tutte le conseguenze, a cominciare dall’inevitabile mancanza di centro. Stiamo andando incontro a processi inversi rispetto a quelli che avevano caratterizzato l’avventura moderna: fenomeni di deterritorializzazione, decentramento, denazionalizzazione (64-71). Sono queste le categorie mobilitate per rendere conto di una realtà nella quale i territori cedono ai flussi, ogni angolo del pianeta è potenzialmente connesso a ogni altro, la sovranità statale scricchiola sotto le pressioni degli operatori economici e delle organizzazioni internazionali.
Protagonisti dell’età globale i potentati economici, che «hanno smesso di concepirsi come la componente privata, complementare a quella pubblica, all’interno di classi dirigenti nazionali» (77). Eppure, potremmo obiettare, checché se ne dica gli stati continuano a esistere, e la classe politica mantiene ancora numerose sue prerogative quando non si affretta a disfarsene. Verissimo, spiega Azzolini, come verissimo che il confine tra potere politico ed economico si assottigli ogni giorno di più: ma non dobbiamo dimenticare che la convergenza tra politica ed economia, l’ibridazione crescente tra le due, è nel segno della seconda. Recuperando la lezione di Wolin, non ci troviamo dinanzi a «un sistema di codeterminazione da parte di soggetti uguali che conservano le loro identità distintive, quanto piuttosto a un sistema che rappresenta la maturazione politica dell’impresa privata» (2011, XVII). Quello esercitato dai grandi gruppi d’interesse nei confronti delle élites politiche appare a tutti gli effetti come un dominio. Un rapporto asimmetrico, del resto, non presuppone necessariamente la subordinazione attiva di alcuni attori ad altri: «può essere anche la conseguenza involontaria di una cattiva distribuzione delle risorse o l’effetto collaterale di strutture politiche, sociali, economiche» (88). Ciononostante, Azzolini ci premura dal paventare l’esistenza di un’unica classe dominante. Farlo significherebbe abbracciare una concezione monolitica del reale, incapace di rendere conto della sua complessità; molto meglio parlare al plurale di ‘gruppi dominanti’ (91). Con le parole di Giorgio Galli, autore di un altro saggio pubblicato di recente, essi «sono leali tra loro non più di quanto lo fossero i signori feudali del Medio Evo, sono reciproci lupi di hobbesiana memoria» (2017, 45). Come a dire: non fanno parte di una comunità di destino, non sempre condividono obiettivi e strategie. In Azzolini ciò sembra addirittura strutturale, giacché «la globalità reticolare non può conoscere un unico centro di irradiazione» (91). Sarebbe la post-modernità stessa, così come è andata configurandosi, a congiurare contro tale eventualità... Membri di questi gruppi, tre figure in particolare: i proprietari delle grandi imprese, i loro manager, i gestori di fondi finanziari. Costoro, tramite attività specifiche, che l’autore analizza nel dettaglio, e che vanno dal lobbying al rating all’offshoring, riescono a piegare in modo più o meno diretto le classi politiche ai loro voleri.
E questo per quel che riguarda la componente privata delle vecchie classi dirigenti. Quanto alla componente pubblica, a giocare un ruolo di primo piano capi e tecnici: «da una parte il potere visibile e ostentato, dall’altra il potere invisibile e nascosto» (114). I primi sono i leader carismatici, costantemente sotto i riflettori, sempre alla ricerca della dichiarazione da prima pagina. I secondi sono invece gli esperti, in particolare quegli economisti di fama internazionale chiamati a formare esecutivi in condizioni d’emergenza, ma poi anche i burocrati alla guida dell’Unione Europea, accusati a torto o a ragione di esercitare il potere dietro le quinte. Ecco però, sono i tecnici a ritirarsi dalle luci della ribalta per manovrare indisturbati, o la penombra che avvolge il loro operato altro non è che un riflesso della sovraesposizione dei capi? Difficile a dirsi. A ogni modo, la cosa che più importa ad Azzolini in queste ultime pagine è aprire un varco per élites politiche degne di questo nome. Oltre a capi e tecnici, e magari al loro posto, servirebbero figure di alto profilo, delle «élites progressiste» (145), capaci di coniugare competenza e visione insieme a un impegno a favore dei più deboli: delle élites in grado di riguadagnare quell’autonomia dalla sfera economica che la politica ha smarrito. Non tanto il primato, quindi, che nella tarda modernità mai è esistito, quanto proprio l’autonomia, pur nella consapevolezza delle interdipendenze che caratterizzano in modo ineludibile l’età globale. È con questa proposta, che a ben vedere nasconde una speranza, forse destinata a rimanere tale, che si conclude il saggio di Azzolini. Un saggio che, alternando una pluralità notevole di registri, fornisce un ritratto credibile del presente e arricchisce il lettore di un approfondito apparato concettuale. E che tuttavia ci lascia con una domanda, a cui solo in parte viene data risposta: come dovrebbero agire in concreto le élites politiche per arginare lo strapotere dei colossi economici? Ritornando alla sovranità nazionale, o provando a rilanciare l’agonizzante progetto europeo? Chi lo sa, potrebbe essere il punto di partenza per un nuovo libro.
di Michele Gimondo