Nell’ultimo libro nato dal loro sodalizio intellettuale, Deleuze e Guattari scrivevano «le scienze, le arti, le filosofie sono ugualmente creatrici, anche se spetta solo alla filosofia creare dei concetti in senso stretto». Stante la differenza di ambiti, la creatività condivisa da arte e filosofia permette quel particolare fenomeno di risonanza tra pratiche diverse che nutre la riflessione estetica. A un caso particolare di questa risonanza, quello tra musica contemporanea e filosofia, è dedicato l’ultimo lavoro di Giacomo Fronzi, Philosophical Considerations on Contemporary Music. Sounding Constellations edito per i tipi di Cambridge Scholar Publishing, che descrive un paesaggio variegato e multiforme approntando per il lettore una mappa chiara e utile, basata su nove punti cardinali. Si susseguono così nove termini chiave (Estremi, Rumore, Silenzio, Tecnologia, Audience, Ascolto, Disintegrazione, New Media) attorno ai quali l’autore ricostruisce lo sviluppo storico e tecnico della musica contemporanea (Primo Movimento), il rapporto tra produzione e ricezione (Secondo Movimento) e le letture filosofiche originate dalle nuove esperienze musicali (Terzo Movimento). Come si sarà notato, lo sviluppo del discorso segue un modello musicale, articolato in tre movimenti, cui si aggiunge un Intermezzo (tra il secondo e il terzo movimento) dedicato a un altro termine chiave, Libertà, incarnato nelle pagine di Fronzi dalla figura di Thelonious Monk, pianista e compositore tra i più influenti nella storia del jazz.
È difficile rendere conto della vastità degli interessi musicali e della quantità delle problematiche speculative affrontate dall’autore; ci limiteremo pertanto a indicare alcuni snodi particolarmente significativi nel percorso proposto dal libro. La musica contemporanea (per usare un’espressione “comoda”, sebbene l’autore si interroghi sulle diverse possibilità di definizione: musica moderna, post-moderna, contemporanea) offre una pluralità di esperienze differenti e addirittura contraddittorie: in essa si può riconoscere una dialettica tra determinazione e indeterminazione, tra dematerializzazione e saturazione, tra seduzione e razionalità (cap. 1). La coppia che in maniera più netta mostra la vocazione della musica contemporanea alle alternative radicali è il binomio di rumore (cap. 2) e silenzio (cap. 3). Se nel primo termine dobbiamo leggere in filigrana la possibilità di una riflessione estetica sul brutto (sulla scorta della teorizzazione di Karl Rosenkranz) e un’istanza politica di resistenza ed emancipazione, attorno al secondo termine si condensano quei tentativi (non meno politici) di trasformazione dell’esperienza dell’ascolto e, attraverso questa, dell’esperienza del mondo tout court. Trattando il tema del silenzio Fronzi non si sofferma soltanto sul caso emblematico di Cage, che con 4’33’’ riesce a superare la tradizionale barriera tra realtà musicale ed extramusicale (p. 78), ma analizza anche la musica sempre più rarefatta di Anton Webern, in cui si assiste a una graduale dissoluzione della materialità del suono.
L’impostazione che vede la musica contemporanea divisa tra tendenze antitetiche trova un ulteriore caso applicativo: la tecnologia (cap. 4). Imprescindibile tanto nella produzione quanto nella ricezione, essa si dispone in maniera polarizzata intorno a due nuclei alternativi: l’estremo rigore (ad esempio nelle esperienze elettroacustiche tedesche) o il ritorno del dionisiaco attraverso la liberazione del corpo (si pensi al fenomeno rave). Allo stesso modo la ricezione (cap. 5), divisa tra l’individualismo dell’ascolto solitario e il collettivismo forzato derivante da una economizzazione dell’arte, testimonia la condizione di crisi permanente in cui versa ormai la musica. Il tema dell’ascolto (cap. 6) viene poi affrontato secondo lo schema interpretativo offerto da Adorno, forse l’autore più presente all’interno del volume: raramente appropriato, più frequentemente regressivo, l’ascolto musicale si scontra spesso con un’obiezione di carattere quasi cognitivo (“questo proprio non lo capisco”) che mette in luce la necessità di un’educazione all’esperienza estetica. In questo ambito però lo sviluppo tecnologico, che pure pone numerosi quesiti di ordine pratico e teorico, può svolgere un’utile funzione, mettendo a disposizione di un vasto pubblico i mezzi necessari per riascoltare: la ripetizione dell’ascolto, effettuabile attraverso un sempre crescente numero di mezzi e supporti, si rivela così uno strumento indispensabile per l’analisi e per l’educazione musicale.
L’ultima parte del libro si concentra sul tema del disordine (cap. 8) e sulle sfide proposte dai new media all’estetica musicale (cap. 9). L’autore declina il primo termine secondo tre linee di sviluppo: rapporto tra musica e teoria dell’informazione; relazione tra ordine e disordine strutturale; musica elettroacustica come realizzazione di un “corpo senza organi” («a formless, disorganised, non-stratified or de-stratified body», p. 186). Quest’ultima linea, impostata a partire dalla riflessione di Deleuze e Guattari, mi pare particolarmente feconda: non solo perché mostra un’oggettiva assonanza con le tendenze estetiche più caratteristiche della musica contemporanea, e in particolare della musica elettroacustica («The developments of western music may be integrally read in the light of the dialectic between territorialisation and de-territorialisation, with a tendency to suppression, in the 20th century, of the former by the latter», p. 184), ma anche perché consente di rispondere in maniera alternativa ai quesiti posti nell’ultimo capitolo: «a) is an aesthetic experience activated by technological music a real possibility? b) if so, what characteristics may it have […]?» (p. 212).
La risposta avanzata da Fronzi, sulla scorta delle definizioni di esperienza estetica proposte da autori come Jauss, Dewey, Levinson, ma anche Perniola, Franzini e Tedesco, pare negativa:
In any case, what seems clear is that the specific experience of technological (or electroacoustic) contemporary music developed in the dimension of listening makes it difficult to speak beyond doubt of aesthetic experience in the ‘strong’ sense, as happens, for example, with the contemplative-cognitive experience that may be generated by the relationship with a traditional cultural object (p. 214).
La «fine delle grandi esperienze estetiche» (Ibidem), così come la fine delle grandi narrazioni, presuppone un’idea di estetica tipicamente cognitivo-contemplativa che proprio la teoria di Deleuze e Guattari, citata in apertura, revoca in dubbio: se l’arte, così come la filosofia e la scienza, è una forma di creazione, l’esperienza estetica potrà abbandonare le tradizionali connotazioni basate su attenzione disinteressata, cognizione e giudizio per appropriarsi di quei caratteri espressivi («disarticulation and de-stratification […] tracing the lines of a plan […] distribution of singularity and haecceity, tremolos and intensities […] construction and mapping of a body or an assemblage», p. 187) messi a disposizione proprio dalla musica elettroacustica.
In realtà è lo stesso Fronzi che, in alcuni passi del libro, offre gli strumenti per pensare la musica contemporanea come il superamento di quella concezione dell’esperienza estetica che Benjamin avrebbe definito “borghese”. Con la musica elettroacustica infatti si abbandona l’epoca della riproducibilità tecnica per entrare in quella della riproducibilità tecnologica (p. 138): non più solo la riproduzione, ma lo stesso processo di produzione è costitutivamente intrecciato agli sviluppi e alle applicazioni degli ultimi ritrovati tecnologici. Si può pensare dunque che l’abbandono dell’atteggiamento contemplativo, tradizionalmente associato alla fruizione dell’opera d’arte, venga radicalizzato e generalizzato da questa “seconda rivoluzione” tecnologica. L’epoca della riproducibilità tecnologica introdotta dalla musica elettroacustica costituirebbe in questo modo il compimento di un processo e non l’irruzione di una inaspettata novità, la definitiva apertura di un nuovo spazio di esperienza e non semplicemente, rubando un’espressione di Luigi Nono, la «tragedia dell’ascolto». Ed è per questo motivo forse che la fine delle “grandi” esperienze estetiche, come afferma l’autore al termine del libro, «non è necessariamente un cattivo segno» (p. 214).
di Stefano Oliva