Il presente: Palazzo di Ghiaccio, Milano, 14 dicembre 2015. Sulle note de “Gli immortali” di Lorenzo Jovanotti e “Lo stadio” di Tiziano Ferro si è svolto a Milano l’Italia Startup Open Summit. L’evento, «impensabile fino a qualche anno fa» nelle parole di Riccardo Luna, presentatore della giornata, è «la festa di Natale delle start-up italiane, un momento di celebrazione di storie di coraggio».
Luna, nuovo direttore dell’AGI e già Digital Champion italiano, dà avvio alla mattinata in un modo spettacolare: con la musica ad alto volume che lo accompagna («[…] E cambieremo il mondo, se cambierà davvero […]») e ripreso frontalmente da una telecamera, percorre di corsa il corridoio del parterre dove è disposto il numeroso pubblico lungo file di sedie, ne cerca lo sguardo e il coinvolgimento, "batte il cinque". La società civile è presente: rappresentanti delle istituzioni locali e nazionali, imprenditori start-up, investitori, giornalisti, grandi aziende, curiosi. L’atmosfera è eccitante, si percepisce «una partecipazione emotiva al bene» (Kant, 1994, p. 167). E il fine comune, ideale e puramente morale qual è? «Un bel percorso che possiamo fare per l’innovazione (enfasi aggiunta) in questo paese», dichiara uno degli autorevoli ospiti della giornata.
Tutto chiaro. O forse no. «Riavvolgendo il nastro», questo frammento etnografico che ha destato una certa meraviglia in chi scrive, invita ad un’interpretazione: di che cosa stanno parlando queste persone? E che cosa stanno facendo? La percezione è di essere spettatori di qualche cosa di singolare, ma già in buona sostanza di senso comune (almeno per alcuni collettivi dotati di un certo capitale à la Bourdieu).
Nel tentativo di fare un po’ di chiarezza, si può iniziare dicendo che nella contingenza attuale un tale linguaggio non è per nulla astruso, ma al contrario assai comune. O meglio, non è astruso nella misura in cui ciò che esprime è una cosa percepita come bella e desiderabile tanto a livello di singolo quanto di collettivo. Di questi tempi, l’innovazione desta una simpatia disinteressata nel pubblico (Ivi., p. 165): d’altronde, chi si spenderebbe contro di essa o chi può non dirsi sedotto da questa parola?
Al tempo stesso però, la significazione di innovazione è oscura proprio in virtù della sua popolarità e della declinazione in campi semantici svariati. A ben pensarci, il segno linguistico “innovazione”, là dove il segno linguistico è l’atto di unificazione di un'immagine acustica ad un concetto, è ovunque. Non corrisponde più soltanto a una pratica economica specifica, ovvero la traduzione di un’idea in un prodotto acquistabile sul mercato, ma a una pratica antropologica, a un certo modo di essere che sembra andare ben al di là della sola sfera di produzione di beni e servizi. L’innovazione è precisamente una disposizione d’animo e la sua confusa significazione linguistica è una metafora, come il linguaggio sa essere, di una trasformazione culturale profonda e in corso (Williams, 1983). Ma qual è dunque il segno di tale trasformazione?
Facciamo ora un passo indietro.
Il passato: Collegè de France, Parigi, 5 gennaio 1983. Durante la prima ora di lezione, Michel Foucault situa ciò di cui intende trattare nel Corso i.e. il governo di sé e degli altri praticando un’ontologia del presente, in continuità con un breve testo di Immanuel Kant: Che cos’è l’Illuminismo? del 1784. Nell’esposizione, Foucault pone in dialogo il tema «dell’uscita dell’uomo da uno stato di minorità di cui egli è colpevole» (Kant, 2012) con un’altra questione molto cara al filosofo tedesco: se e come la specie umana sia in continuo progresso. Più precisamente, Foucault ricorda come Kant, ritornando in varie occasioni sulla questione, nel 1798 abbia posto i lumi in relazione ad un altro evento che «non si può dimenticare» (Kant, 1994, p. 169): la Rivoluzione francese. Nella parte seconda de Il Conflitto delle facoltà del 1798, Kant individua in un avvenimento che lascia un indizio storico, la condizione di possibilità del progresso: «un segno rimemorativo, dimostrativo e prognostico di un progresso costante che trascina il genere umano nella sua totalità» (Foucault, 2009). Ciò che è interessante è la lettura che Kant propone della rivoluzione: se essa è il segno di tale avvenimento, non lo è per «il dramma rivoluzionario in se stesso. […]» (Foucault, 2009) e neppure poiché corrisponde a «importanti fatti o misfatti compiuti dagli uomini. […] No, nulla di tutto ciò» dice Kant (1994, pp. 165). Piuttosto, dobbiamo ricercare una disposizione di base degli spettatori: «una partecipazione, sul piano del desiderio, prossima all’entusiasmo (enfasi aggiunta)» (Ivi., pp. 165-166). E’ propriamente questo entusiasmo che riguarderebbe la totalità di un collettivo[1], secondo Kant, ad autorizzare alcune osservazioni antropologiche.
Innovazione, dunque, quale discorso sull’antropologico e quale questione antropologica che va, cioè, a interrogare un insieme i modi di esistenza individuali e collettivi. Sotto queste spoglie, l’innovazione avanza una richiesta a chi è sensibile al richiamo del suo discorso: di crederci e soprattutto, di credere alla cifra trasformativa, intrinsecamente positiva e perciò desiderabile che lo caratterizza. In questo senso, essa non appare come un discorso tra tanti né business as usual. Al contrario, potrebbe intendersi come un nuovo discorso di tipo fondativo, che si intreccia ad altri e che avanza una precisa richiesta ai soggetti contemporanei: la richiesta di “trasformare se stessi”.
Qual è quindi il problema? «Che c’è di tanto pericoloso nel fatto che la gente parla e che i suoi discorsi proliferano indefinitamente» (Foucault, 1972, p. 9)? La parola “innovazione” è forse un pericolo?
Riprendendo Kant (1994, p. 165), si legge, a proposito del segno storico di un tempo rivoluzionario di cui sopra, quanto segue:
«Si tratta solo del modo di pensare degli spettatori che in questo gioco di grandi trasformazioni si palesa pubblicamente e manifesta a gran voce una generale e tuttavia disinteressata simpatia per i giocatori di una parte contro quelli dell’altra (enfasi aggiunta)».
Ci si può dimenticare cioè, di ciò che è politico, dunque conflittuale. Tornando all’episodio di apertura, in quella giornata di festa delle oltre cinquemila start-up italiane, il primo a salire sul palco è stato il Presidente dell’associazione Italiastartup, Marco Bicocchi-Pichi. «Il papà […] dell’ecosistema», dichiara Luna, «ma alcuni quando parlano dicono anche il Papa, per questo approccio ecumenico (enfasi aggiunta), inclusivo che ha». Ecco allora la comunione e la cooperazione capaci di superare la divisione politica e confessionale rispetto ad un fine comune che può celare il conflitto. Tale attitudine, come vedremo, si riflette bene in alcuni spazi del “discorso dell’innovazione”, per esempio gli spazi di co-working e “l’eco-sistema”, metafora biologica a indicare l’insieme e la varietà degli attori che si mettono al lavoro “per l’innovazione”.
In conclusione, si potrebbe dire che il fascino che evoca e la presa di cui è capace tale discorso rendono difficoltoso l’esercizio di de-soggettivizzazione del soggetto, arte indispensabile, scrive Foucault (2007), al fine di non essere governati eccessivamente.
Bibliografia
Kant, I. (1994), Der Streit der Fakultäten (1798); edizione italiana a cura di Domenico Venturelli: Il conflitto delle facoltà. Brescia: Editrice Morcelliana.
Kant, I. (2012),“Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?” in Foucault, M. e Kant I., Che cos’è l’Illuminismo. Milano, Mimesis (edizione digitale).
[1] Kant parla di “genere umano” nel suo scritto e lo fa in riferimento alla Rivoluzione francese. La presente riflessione, com’è ovvio, non vuole estendersi a questa totalità. Nonostante sia verosimile che quanto argomentato mostri una certa assonanza rispetto a quanto avviene in altri luoghi nel Nord e Sud Globale, il contributo si limita a una lettura del contesto italiano contemporaneo.
* Parte di questo scritto apparirà in Anna Paola Quaglia, "Innovazione, imprenditorialità, tecnologia: la promessa di una nuova urbanità” in Ambiente, Società e Territorio, 2, 2017
Di Anna Paola Quaglia
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