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Così come Sade si immaginava imparziale “pittore” della natura umana in tutta la sua variegata realtà (Idée sur les romans, in Les crimes de l’amour, 1800) Menin, in qualità di storico delle idee, “dipinge” il marchese nella sua angosciosa complessità, senza mancare di evidenziare le sfaccettature e le tensioni che animano la sua opera. Il risultato è un quadro accurato e affascinante: i toni di questo volume sono dettati dal rigore filologico e dalla volontà di presentare in maniera organica l’ampia produzione dell’autore; laddove i colori si accendono maggiormente, ciò avviene perché Menin lascia parlare lo stesso Sade e segue le linee da lui tracciate, lasciandolo emergere nelle sue vesti di philosophe dirompente. All’esposizione del pensiero sadiano, lo storico accosta riflessioni di carattere ermeneutico, ma questa operazione si iscrive sempre nel seno di un dichiarato intento storiografico: non solo le singolari vicende della ricezione sadiana, risultanti in una lunga tradizione di discutibili rappresentazioni caricaturali e miticizzazioni, costringono chiunque voglia proporre una diversa lettura di Sade a giustificare in che modo questa sarebbe più fedele all’autore; bensì la stessa predilezione, da parte del marchese, dello stile narrativo polifonico obbliga tanto i lettori quanto gli storici a farsi interpreti dei testi, escludendo semplicistiche identificazioni del pensiero dell’autore con le voci di singoli personaggi. È così che Menin cerca di costruire una visione d’insieme capace di accogliere al suo interno anche quel cospicuo corpus di letteratura “onesta” (le opere autografe, in cui Sade ammorbidisce i toni e i contenuti rispetto a quelle pubblicate anonime e clandestinamente) a lungo negletto dalla critica, prestando particolare attenzione al romanzo filosofico Aline et Valcour (1793) e alla raccolta di novelle Les crimes de l’amour.

Il sole nero dei Lumi sviluppa questo progetto nel corso di quattordici capitoli. I primi cinque adottano una prospettiva immanentista e si prefiggono di presentare Sade e i suoi scritti. Il capitolo 2 (Sade autore: letteratura o filosofia) assume un’importanza fondamentale per l’intero volume: qui Menin individua nella narratività stessa dell’opera del marchese la cifra della sua filosofia, contro tutti quegli interpreti che ne hanno minimizzato – quando non del tutto negato – il valore (p. 50). Il fatto che Sade richieda l’attenzione del lettore, mettendo in scena personalità discordanti e talvolta incongruenti, intercalando ai caos orgiastici della produzione clandestina (cap. 3) rapide ma lucide dissertazioni, lasciandoci sospesi nei finali appositamente stridenti della produzione onesta (capp. 4-5), mette in luce il suo autentico spirito philosophe: egli vuole accendere una luce nella mente dei suoi lettori, vuole dar loro degli strumenti per orientarsi. Per di più, questa scelta stilistica rispecchierebbe un assunto filosofico onnipresente nell’opera di Sade: non esiste una verità morale o politica superiore alle altre, perché ogni individuo è autonomo nella misura in cui legislatore di se stesso. La negazione di un ordine e di una legislazione eteronoma nella natura (diretta conseguenza dell’ateismo) sfocia nella perdita di valori intrinseci e lascia all’uomo la sola bussola del proprio egoismo, come immortalato nel dittico formato da La nouvelle Justine (1797) e l’Histoire de Juliette, sa sœur (1801). Questo sembra essere il messaggio di Sade e allo stesso tempo il motivo delle sue scelte espositive e di alcune aporie argomentative. Per quanto sinistre e sulfuree, quelle di Sade rimangono lumières, nel pieno spirito della sua epoca filosofica. Da qui l’epiteto “sole nero” – ripreso dalla tradizione alchemica e già utilizzato da André Bréton per definire il marchese – con cui Menin titola il suo studio, aggiungendo enfasi al carattere filosofico dell’autore (p. 20).

Sulla base di queste fondamenta si erige l’edificio dei capitoli seguenti. I capitoli 6-9 (dedicati alle questioni del materialismo, della medicina e del sentimento) aprono al confronto dei testi sadiani con la produzione di altri grandi pensatori coevi, demistificando la figura dell’autore attraverso un’attenta ricontestualizzazione storica. Nonostante le ovvie restrizioni dettate dalle esigenze espositive, Menin riesce a offrire una buona panoramica dei temi centrali del dibattito illuminista francese e a mostrare la posizione di Sade all’interno di questa trama. Cosa emerge da questi confronti sono non solo i debiti del “divin marchese” nei confronti di pensatori quali La Méttrie, Holbach, Helvétius e Rousseau, bensì anche il grado di rielaborazione e originalità concettuali di cui egli è capace. Il confronto con quest’ultimo occupa il maggior spazio: ad esso è dedicato l’intero capitolo 8 (Un discepolo parricida di Rousseau); ma esso si estende per tutto il resto del volume. Menin evidenzia la grande ammirazione di Sade nei suoi confronti, pur nella completa divergenza su alcuni punti fondamentali che si traduce in conclusioni antitetiche in materia antropologica (e, dunque, morale e politica). Da grande conoscitore del pensiero rousseauiano, allo studioso va riconosciuto il merito di aver esteso il confronto tra questi due autori a quelle opere “oneste” finora ampiamente neglette anche sotto questo rispetto. L’entità del “parricidio” assume una consistenza che non potrebbe avere se alle sicuramente centralissime figure di Justine e Juliette (controaltari alla Julie rousseauiana) non si accostassero quelle di Aline (protagonista del già citato Aline et Valcour) e di Eugénie de Franval (eponima protagonista di una delle novelle contenute nei Crimes e sorta di trasposizione “onesta” dell’omonima protagonista de La philosophie dans le boudoir, 1795). Quest’immagine si fa tanto più significativa se si tiene conto del ruolo che l’atto omicida (in particolare quello parenticida) riveste all’interno dell’economia libertina sadiana: in esso si cristallizza la visione di una Natura madre e matrigna, fonte di tutti i piaceri, ma anche indifferente e distruttrice, alle cui leggi nessuno può sottrarsi e cui il filosofo scevro di pregiudizi non può non tornare.

Da questo nucleo oscuro e insindacabile si irradiano tutte quelle conclusioni che hanno segnato la fama di Sade quale auteur damné. Queste sono analizzate da Menin negli ultimi cinque capitoli del volume, dedicati rispettivamente all’antropologia, la pedagogia, la politica, la morale e la religione. Si tratta di aspetti fortemente intersecantesi e interdipendenti, comprensibili solo nell’ottica di un pensiero unitario (cosa che lo storico non manca di sottolineare a più riprese). Tuttavia, si può dire ben riuscito il tentativo di esporre un tema alla volta, offrendo al lettore un accesso più agevole ad alcuni snodi concettuali centrali al pensiero di Sade. L’argomentazione non è ridondante; in ogni capitolo essa segue una traiettoria propria, conducendo all’enucleazione di problemi di volta in volta diversi, per quanto tutti apparentati da alcuni assunti di fondo. Questi ultimi sono presentati nel primo paragrafo del capitolo dedicato all’antropologia sadiana e ritornano in tutti i restanti capitoli. Per descrivere questi elementi fondanti, Menin mutua le tre categorie individuate da Jean Deprun (esposte nell’introduzione ai volumi della Bibliothèque de la Pléiade): isolismo (ossia «la solitudine originaria dell’essere umano nello stato di natura», p. 180), intensivismo (ovvero la naturale tendenza a «vivere il più intensamente possibile, sia nella dimensione fisiologica sia in quella etica», p. 182) e antifisismo (termine che indica la «convinzione», prima anticipata, «che la natura è malvagia e che l’unico modo di servirla (ma altresì di contrastarla) è seguire il suo esempio», p. 185). All’interno di questa cornice lo studioso riconosce un ulteriore elemento chiave, ovvero l’ambiguo rapporto di Sade con l’alterità: l’uomo sadiano è solo tanto nello stato di natura quanto in quello civile, eppure egli non può godere autenticamente senza confrontarsi con gli altri e sopraffarli. La stessa nozione (più tarda) di “sadismo” implica la presenza di una vittima accanto a chi trae piacere. Su tale “egoismo relazionale” (p. 184), che potrebbe essere rimandato a quella sintesi e simultaneo rifiuto delle prospettive politiche di Hobbes e Rousseau (cap. 12), e che innerva, a ben vedere, l’intera questione del bonheur (cap. 13), si sarebbe potuto dire di più; ma ciò non compete, probabilmente, a quella che è un’opera di spirito storiografico, e alla quale si riconosce anzi il merito di aver avanzato interpretazioni utili per la comprensione dell’enorme disegno sadiano.In conclusione, possiamo giudicare riuscito il progetto di Menin di contribuire a riscoprire il vero volto del marchese, dietro ai pregiudizi biografici e stilistici che ne hanno viziato l’immagine (p. 17). Inoltre, questo studio va a colmare un vuoto non indifferente nella manualistica italiana (cfr. p. 21), estendendo di non poco il raggio di interesse storico-filosofico per un autore finora tanto celebrato quanto malinteso.

Michele Vinai

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