Il profumo del tempo del filosofo coreano Byung-Chul Han (Vita e Pensiero,2017) è un libro sul rapporto che le società contemporanee intrattengono con il loro tempo, probabilmente il nostro bene più prezioso. Di qui la necessità di analizzare un’epoca che sta pericolosamente trascurando l’importanza del tempo, appiattendolo sul presente con l’effetto di sminuirlo a mera attualità, e obliando così le sue altre dimensioni, il passato in primis, visto come qualcosa di non più “agente” (come se non esistesse più, o addirittura non fosse mai esistito) e quindi poco interessante. Byung-Chul Han parla di una vera e propria “crisi del tempo” che dipende dall’assolutizzazione della vita activa e della relativa degradazione dell’uomo ad animal laborans ossessionato dall’imperativo del lavoro. Il tempo ha perso il suo valore, il suo profumo, la sua durata. È frammentato, atomizzato, intempestivo perché slegato da una narrazione temporale che possa infine portare alla compiutezza di un percorso. Non ha direzione. Perché si è arrivati a questo non è facile dirlo, ma ha certamente a che fare con lo svuotamento di senso e significato del mondo, a favore di un modo di esistere più superficiale e provvisorio, improntato sull’azione, avverso alla contemplazione.
Conseguenze di questa nuova dimensione temporale sono la noia e l’accelerazione tipiche dei nostri giorni, ma anche angoscia e inquietudine. La Storia custode del tempo, che ha ormai lasciato il posto alle informazioni “senza profumo” (senza senso), perde la sua tensione narrativa, frammentandosi. Così, in questo vuoto lasciato dal tempo, si impone l’accelerazione, un esistere senza ostacoli, ormai annullati dalla mancanza di significati. Il tempo corre e noi con esso, incapaci di fermarci, sùbito preda della noia, e per questo sempre in procinto di fare. «Per la mancanza di tensione narrativa – scrive Byung-Chul Han –, il tempo atomizzato non può trattenere a lungo l’attenzione e per questo la percezione viene alimentata sempre con qualcosa di nuovo e radicale. Il tempo puntuale non concede alcun indugiare contemplativo» (p. 27). Unico nostro scopo, in tutti gli ambiti della vita, è ormai quello di eliminare l’intervallo, interpretato come noiosa sospensione, perché priva di senso e significato, in favore dell’azione. Non sappiamo più indugiare, ovvero fare l’esperienza della durata, in sostanza assaporare l’esistenza – eppure, ricorda il filosofo sudcoreano, «non la quantità di eventi, ma l’esperienza della durata rende più piena la vita» (p. 44). Siamo abituati a scolarci questa vita senza nemmeno avvertirne il sapore sulla lingua.
Sul piano psicologico la mancanza della solidità della durata si riflette in un’angoscia diffusa di un individuo che, nel suo approcciarsi al mondo, ha sempre più a che fare con l’inatteso e l’imprevisto. Non solo il tempo, ma anche noi siamo discontinui, sospesi nel vuoto di significato. Sul piano sociale, invece, ciò comporta la perdita di importanza di pratiche quali la promessa, la fedeltà e il vincolo. La crisi temporale si fa così una vera e propria crisi d’identità individuale e sociale.
La dissoluzione del nostro tempo, l’unico in grado di dare un significato all’esistere, è una condanna a vivere un’esistenza surrogata, mai approfondita nella sua pienezza. Siamo “animali della durata”, non coscienze intermittenti ridotte alla sola dimensione del presente. La società contemporanea, al contrario, ci sta conducendo sempre più verso il primato del presente: «ciò che non si lascia ridurre al presente non esiste. Tutto deve essere presente. Spazi e tempi intermedi che agiscono in senso contrario alla riduzione al presente vengono soppressi. Restano infatti soltanto due condizioni: il nulla e il presente. Non vi è più il “tra”. Ma essere è più che essere-presente» (p. 47).
Siamo sempre meno animali della soglia, per i quali le soglie provocano sofferenza ma anche e soprattutto felicità; sempre meno “uomini dell’attesa”, per i quali la vita è ricca di momenti intermedi in cui crescere e formarsi – senza questi momenti intermedi non esisterebbe la cultura umana (che cosa sono, ad esempio, le feste?); e infine sempre meno uomini capaci di indugiare sulle cose, afferrandone il profumo per custodirlo nei ricordi. Ma «l’indugiare contemplativo – ci dice Byung-Chul Han – concede invece tempo, amplia l’essere, che è più di un essere-attivo. La vita guadagna tempo e spazio, durata e ampiezza, quando recupera questa capacità contemplativa» (p. 132).
Come sfuggire all’unica imperante dimensione – quella dell’animal laborans – in cui ormai ci ha costretto questa società attiva? Han risponde: «la democratizzazione del lavoro dovrebbe essere […] seguita da una democratizzazione dell’otium, perché la prima non degeneri in schiavitù di tutti» (p. 132). La via di mezzo è sempre la soluzione più auspicabile; ma abbiamo tutti il dovere di non dimenticarci che è stato proprio l’indugiare della filosofia a condurci a questa soluzione.
a cura di Stefano Scrima