Amon Tobin, ISAM 2011
Al volgere del Sessantotto, un fine critico come Filiberto Menna lanciava la sua Profezia di una società estetica, intuendo per la società postmoderna i modi di una creatività diffusa, la diluizione dell’arte nella quotidianità, rintracciandone i precursori in Preraffaelliti e Simbolisti. La tendenza alla sintesi e all’alleggerimento dell’immagine contemporanea ha infatti favorito un rifiorire della decoratività, che oggi si dà in numerose forme, dal tatuaggio al gadget allo sticker, dalle copertine dei dischi alle cover per lo smartphone. Sono queste le nuove forme di quella che un tempo si diceva arte applicata e che oggi passa anche come design, con una panoplia di possibili prefissi. Persino il video mapping, che può essere legittimato come un nipote eccentrico dei sons et lumières francesi, rientra a pieno nell’alveo delle arti applicate contemporanee: spettacoli, nel senso stretto della parola, ornamenti mobili, dinamici, evanescenti ed effimeri, ma pur sempre mirati a intrattenere e divertire un pubblico di massa animando la facciata di un qualche palazzo, riqualificandola esteticamente. Così valga anche per quei variegati tappeti visuali che animano i live di musica elettronica o le discoteche, etichettati con il termine un po’ generico di visual. Essi fungono da apparato decorativo, mutuano i loro stilemi perlopiù dai geometrismi concretisti del Neoplasticismo e del Suprematismo, o viceversa, in altri casi, simulano le pulsioni organiche dell’Informale e dell’Espressionismo Astratto mediante le molte possibilità della computergrafica. Sia la dinamicità sia le evoluzioni delle loro forme sono subordinate alla velocità e alle peculiarità della musica che accompagnano: la loro funzione è quella di alleggerire l’ascolto cosiddetto “acusmatico”, come lo ha definito Pierre Schaeffer, quello della musica registrata, separata dal gesto o dall’evento che l’ha generata, per favorire un più equilibrato bilanciamento di stimoli sensoriali.
Esistono però motivi più profondi che permettono di ricondurre il fenomeno del visual per musica alle arti applicate, motivi che legano indissolubilmente decorazione e musica rintracciati da grandi filosofi e teorici già tra Sette e Ottocento. Nella Critica del giudizio Kant afferma che «i disegni à la grecque, i fogliami delle cornici e delle tappezzerie […] sono bellezze libere» (1997, p. 124), riconducendo così l’ornamento a quella che nel terzo momento della “Analitica del bello” viene da lui stesso etichettata come pulchritudo vaga, una bellezza estranea agli obblighi della rappresentazione e quindi formalmente autoreferenziale. La libertà formale degli ornamenti porta il pensatore di Königsberg a considerarli «come della stessa specie di quelle che in musica si chiamano fantasie (senza tema), ed anche tutta la musica senza testo» (ibidem). Meno di un secolo dopo anche Eduard Hanslick, musicologo praghese e teorico del formalismo musicale, si appresterà a stabilire una stretta corrispondenza ontologica tra le forme dell’ornamento e le forme della musica, riconoscendo a entrambe una comune autonomia di significato, istanze di una pulchritudo vaga, per dirla ancora con Kant. Nel tentativo di spiegare in che modo la musica possa dare “forme belle senza contenuto”, Hanslick trova infatti un appoggio ideale nel paragone con l’arabesco e ne fa emergere le possibili corrispondenze con la composizione musicale, tracciando nella propria immaginazione «linee curve che ora si abbassano dolcemente, ora audacemente si innalzano, si incontrano e si allontanano, si corrispondono in archi piccoli e grandi, sono apparentemente incommensurabili, ma sempre ben proporzionate, si contrappongono o si fanno riscontro: insieme di piccole unità singole che pure costituisce un tutto» (2001, pp. 63-64). L’invito di Hanslick è ora quello di immaginare un arabesco mobile, vivente, «che nasca davanti ai nostri occhi in una continua autoformazione» e in quanto «attiva estrinsecazione di uno spirito artistico, che riversi incessantemente tutta la pienezza della sua fantasia nelle vene di questo movimento» (ibidem), proprio come in una composizione musicale. La suggestiva descrizione di Hanslick, ricca di verbi di movimento, appare già come la descrizione di un film astratto di Hans Richter, di Len Lye o di Norman McLaren, così come dei visual (eredi diretti di queste esperienze) dei live di Alva Noto. Il perfetto matrimonio tra visual e musica elettronica si deve poi alla loro affinità ontologica, all’identità delle loro origini: entrambe le forme nascono infatti dai medesimi algoritmi, da calcoli celati, nascosti, che le intrecciano e le canalizzano in un unico flusso temporale. Anche l’ornamento più tradizionale ha in sé un certo movimentismo, come notava a suo tempo Henri Focillon, ma di certo è solo il video a renderlo un fatto concreto e a trasformare così la metafora di Hanslick nella realtà delle nuove dimensioni dell’ascolto musicale: un ascolto espanso, sinestetico, vitalistico.
di Pasquale Fameli
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Bibliografia
Focillon, H. (1987). Vita delle forme (1934). Torino: Einaudi.
Hanslick, E. (2001). Il bello musicale (1854). Palermo: Aesthetica.
Kant, I. (1997). Critica del giudizio (1790). Roma-Bari: Laterza.
Mazzoni, A. (2011). Il gioco delle forme sonore. Studi su Kant, Hanslick, Nietzsche e Stravinskij. Milano-Udine: Mimesis.
McLuhan, M. (2011). Capire i media. Gli strumenti del comunicare (1964). Milano: Il Saggiatore.
Menna, F. (1968). Profezia di una società estetica. Roma: Lerici.
Schaeffer, P. (1966). Traité des objets musicaux. Paris: Éd. du Seuil.
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