Se volessimo individuare le idee che si collocano alla base della nascita della filosofia in India dovremmo articolare un discorso attraverso tre passaggi tra loro collegati. Innanzitutto dovremmo dire che i testi radicali della riflessione filosofica indiana, le Upaniṣad, sono interamente pervasi dalla ricerca della corrispondenza tra macro e micro cosmo. Questa istanza di unità diventò però immediatamente l’occasione per riflettere su due problemi interconnessi. Il primo problema è quello che in occidente definiremmo del “trascendentale”, intendendo con ciò un’anticipazione della visione kantiana secondo cui la realtà empirica è soltanto la forma in cui la realtà essenziale si presenta alla coscienza, ma tale realtà empirica non sussiste indipendentemente da una coscienza. In tempi antichissimi, intorno al secondo millennio avanti Cristo, tale visione della correlazione tra coscienza e mondo e insieme della necessità di un suo superamento verso una dimensione unitaria dell’esperienza divenne manifesta ai veggenti vedici assisi in meditazione nelle foreste indiane. Le Upaniṣad dettero il nome di ātman (letteralmente: “sé”) alla scoperta di questo principio trascendentale. Da un punto di vista metafisico l’ātman è un principio reggitore e ordinatore dell’universo e, quando viene considerato come Sé universale, possiede anche un aspetto psichico che lo rende auto-cosciente del tutto. Il punto centrale di questo primo aspetto della riflessione indiana delle origini è quindi l’identificazione del cosmico con lo psichico, nel senso che l’ātman si configura come un assoluto che possiede insieme i caratteri dell’essere e del pensiero. La coscienza-ātman non ha quindi niente fuori di sé, e tutti gli oggetti e le relazioni dell’universo esistono solo in quanto oggetti-di-conoscenza. Questo quadro concettuale, che possiede una innegabile connotazione trascendentalista, compare per la prima volta nella Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad (tra il IX e l'VIII secolo a.C), attraverso il punto di vista del maestro Yājñavalkya [1] e sarà una delle direttrici principali della riflessione filosofica indiana matura. Durante il periodo classico della filosofia indiana (V-VIII secolo d. C.) – in cui troviamo dei sistemi filosofici distinti che però condividono alcune idee di base che provengono dalla fase upaniṣadica – portato fondamentale di tale concezione trascendentale sarà il concetto di māyā, ovvero 1) il fatto che il mondo empirico sia “apparenza”, dal momento che non è possibile conoscere la reale essenza delle cose, e 2) che la pluralità non sia reale in senso proprio, dal momento che solo l’unità è reale, e questa unità è l’unità della coscienza, cioè dell’ātman. [2]
Che questo bel libro di Federico Leoni si ponga al crocevia di discussioni vitali nel moderno dibattito filosofico lo si intuisce già dal titolo, Jacques Lacan. L’economia dell’assoluto(Orthotes, 2016); e nondimeno si rimane sorpresi alla conclusione della lettura dalla quantità di spunti che esso offre. Se ci si aspetta d’altronde un’opera lineare e saggistica nel senso classico della parola, si rimarrà delusi. Ma proprio qui sta l’interesse di questo libro, difficile, che tratta questioni difficili. Anche perché la filosofia contemporanea ci ha dimostrato, attivamente o passivamente, come la semplicità e la linearità corrano spesso il pericolo di risultare noiose e poco produttive, oltre che fuorvianti. Da buon ed esperto interprete Leoni non ci trascina infatti, né trascina se stesso, nel tentativo di ricostruire ciò che Lacan avesse intenzione di dire con precisione filologica; l’autore si chiede piuttosto cosa abbia Lacan da dire, a noi odierni, che forse non hanno fatto tesoro della lezione dello psicanalista-filosofo. Il motivo è che non vi abbiamo prestato orecchio; o forse, sembra suggerire Leoni, che ve ne abbiamo prestato troppo. Ma vediamo di chiarire cosa ciò voglia dire.
Già dall’introduzione l’autore dichiara il fine di rintracciare in Lacan la fase del «pensiero dell’Uno». La riflessione del nostro, spiega difatti Leoni, ha conosciuto uno sviluppo da una fase centrale «dialettica e riflessiva», fino all’approdo finale ad una “riflessione dell’immanenza”, che Leoni tenterà di descrivere più come un approdo piuttosto che una ripresa. In che senso intendere tale ripresa, e l’Uno stesso intorno a cui ruota, è il fil rouge dell’intero libro. Leoni rintraccia in Lacan il ripresentarsi di una scissione del pensiero che risale già a Platone. Ma per presentarci tale scissione, l’autore ricorre inizialmente all’analisi dell’opera aristotelica e alle distinzioni introdotte dallo stagirita tra potenza e atto. La distinzione non passa tuttavia tra pensiero in divenire e pensiero divenuto. Piuttosto il pensiero cosiddetto divenuto, cioè quell’atto in atto che sembrerebbe essere immobile nella propria impassibilità, sembrerebbe essere la sovrascrizione di una scissione più profonda che già nel Parmenide Platone aveva messo in luce. Se infatti si pensa il pensiero, non lo si può che immobilizzare nella sua rappresentazione, poiché è appunto illogico il pensiero dell’istante, del divenire. Lo è, certo, secondo la logica tradizionale delle proprietà e dei predicati. Ma, ci chiede Leoni sulla scorta di Lacan, è produttiva questa maniera si pensare? Anche la terribilità che Platone riconosceva al divenire, andrebbe quindi ad essere riletta come abissalità di quest’atto di pensiero che non può essere che praticato, sfuggendo costitutivamente al dirsi.
L’abbondanza di temi che nel corso dell’opera vengono affrontati o anche solo sfiorati non permette naturalmente una loro elencazione esaustiva. Né questa è l’intenzione o la sede. Piuttosto, il dualismo cui si è accennato, e che ha per Leoni i propri capisaldi in Platone e Aristotele, autore che verrà visto da Leoni stesso come lo sfondo teorico costante del Seminario XX, percorre costantemente le analisi del libro e ne costituisce il ritornante, sotto, potremmo dire, diverse e mentite spoglie. Filosofia e psicanalisi, soggetto e oggetto, immanenza e trascendenza, pensiero dell’uno e pensiero del tutto, vita e morte, interno ed esterno: tutti questi termini che si avvicendano nei vari capitoli costituiscono i molteplici scenari in cui si gioca una dualità più profonda, che l’autore evidenzia nelle primissime pagine, cioè quella tra un’etica del desiderio e un’etica del godimento. Se quest’ultimo si svolge nell’istante, nel momento, cioè, in cui il pensiero è immediatamente e semplicemente già sempre presso se stesso, il desiderio ha per contro bisogno di una distanza, di una separazione; si potrebbe dire di una differenza. Ma non è la differenza pura, libera, quella di cui necessita per mettere in moto la propria macchina: è piuttosto la differenza subordinata all’identico, la differenza tra parti, quella differenza che è la declinazione stessa della negatività, del non-essere. Chi in queste righe abbia sentito l’eco dei discorsi strutturalisti o post-strutturalisti non si è di certo ingannato. Sono molteplici i punti in cui Leoni vi si confronta. Ed è anche per questo che nel libro si sente risuonare l’Hegel kojeviano sotto le molteplici declinazioni del pensiero del rispecchiamento e della relazione.
Del resto è la stessa struttura del libro, oltre all’argomentazione condotta, a mettere in luce un sottofondo psicotico-ossessivo della relazione e del relativo, racchiuso com’è, il libro, tra due soglie – come le definisce l’autore – ediviso in due parti, all’interno delle quali il ritornare dell’uno, due e tre, ripetuti nella prima e nella seconda parte, ricordano sia le nenie di certi giochi infantili, sia il triangolo edipico, che il pensiero contemporaneo così fortemente cerca di esorcizzare, ma anche quello stesso gioco a tre che si è venuto abbozzando tra Lacan, Aristotele e Platone, in cui lo stesso Leoni sarebbe il quarto incomodo. Gioco che, per la sua costitutiva dissimmetria, non si può appagare di se stesso. Ma appunto è anche da questo che si evince come Leoni scacci qualsiasi ermeneuticità.
Si cadrebbe in inganno, però, se si leggesse tale struttura alla luce di quella «nuova grammatica della matematica» che inscriverebbe l’intero parcellizzato tra due limiti; o all’interno di un ripresentarsi di un unico limite. La terzità va letta, come si evince dalle argomentazioni del libro, sicuramente non come alterità, non come incommensurabilità (che nuovamente implicherebbe una misura, un nomos), ma come assolutezza. È il pensiero nel suo farsi cui tende Leoni – sulla scorta di Lacan. Ed esso non può essere che divenire. Divenire come pratica. Ecco anche il punto di innesto tra filosofia e psicanalisi. Ecco la vera obiezione che Leoni si sente di muovere all’economia finanziarizzata, come si vedrà. È anche, dunque, una immagine di Lacan molto meno conservatrice di quanto vorrebbe la vulgata, quella che si ottiene dalla lettura di quest’opera. Se è vero che Lacan ebbe a dichiarare che non vi è fuori, Leoni ci suggerisce che non è appunto nel fuori che si cela il problema. Il pensiero dell’Uno alla cui luce, o ombra che dir si voglia, si svolge tutta l’ultima riflessione di Lacan, è testimonianza del suo cruccio, anche doloroso – come dimostrano le testimonianze riportate – riguardo all’insistenza di un tema così cruciale come quello della topologia e della ricerca di una via al di là del tutto, in direzione dell’immanenza. Anche questo è ben trattato nel libro di Leoni, dal momento che egli non si occupa solo della riflessione metafisica di Platone e Aristotele, ma anche della loro, conseguente, politica.
Vi è, quindi, un paradosso, che giace nelle viscere stesse di tutta questa operazione. Leoni ritorna più volte, e sembra che ciò costituisca appunto l’impalcatura profonda dell’opera, sulla questione del dire e del linguaggio. Egli pone infatti, a ragione, alla base di tutta la metafisica occidentale, quella scissione tra soggetto e oggetto che rende possibile la stessa metafisica in quanto dire sul dire, e prima ancora, dire ciò che non può essere più detto una volta scisso, cioè l’Uno. Scissione che si opera nel e col linguaggio. La questione del poter dire ciò che si dice, e del dire financo se stessi, è legata a doppio filo con tutto ciò. Ma allora si potrebbe chiedere: quale operazione sta compiendo Leoni? Non una ermeneutica in senso classico, come si è già scritto. Ma quale è il suo ruolo? Non sta egli facendo di Lacan lettera morta? Non sta forse compiendo un altro passo su quella linea di regresso all’infinito che si origina dal pensiero riflessivo?
Innanzitutto, è bene dire che Leoni non tenta maldestramente di sciogliere questo nodo, e dunque non cade nel tranello stesso che le possibilità del linguaggio tendono. Non si parla, insomma, come di tanto in tanto si vede accadere, addosso. In secondo luogo è lui stesso a suggerirci, beninteso nella forma del non-detto, una via. A proposito dei nodi, luogo topologico eccellente, in cui Lacan stesso si immerse nei suoi ultimi seminari, intento com’era a farne e disfarne, Leoni descrive il nastro di Moebius, «genesi adialettica dei contrari» come lo chiama (p. 67). E così, quasi gli sfugga dalla penna, scrive come il nastro non vada osservato, ma piuttosto percorso. E neanche va percorso, ma, aggiunge, bisogna fabbricarlo. Ora, a parte la pregnanza di questa dichiarazione, è significativo proprio come a una dialettica della materia e della forma come quella aristotelica, si contrapponga qualcosa che «è dell’ordine del dispiegamento» (p. 68). Di fronte ad esso il linguaggio non può che fare silenzio, proprio perché è al di là di esso che tale dispiegamento avviene. Possiamo allora accostare il libro di Leoni alla famosa scala di cui parlava Wittgenstein?
Come egli stesso descrive l’operazione wittgensteiniana è un tradimento. Ma Leoni, a differenza di Wittgenstein, non tenta di dire il vero sul vero, si tira fuori da questa sfida, poiché, come argomenta esaurientemente, essa non può essere che persa.
È proprio al vero sul vero che sono dedicate alcune bellissime pagine di questo saggio. Si viene introdotti nel vivo del tema da un resoconto che fa lo stesso Lacan di un sogno di qualcuno che desiderava ardentemente, anche nella dimensione onirica, udire dallo psicanalista il vero sul vero, appunto. La riflessione su tale tema porta Leoni ad accostare l’operazione introduttiva svolta dalle cornici dei dialoghi platonici alle cornici di opere quali il Decameron e Le Mille e una notte. In questi tre casi assistiamo, ci dice, alla spinta del linguaggio fino alle proprie ultime possibilità, alla messa in atto di uno stratagemma teatrale che, invece di introdurre nel vivo della narrazione, sembra piuttosto sortire l’effetto di distrarci ulteriormente da essa, di alienarci. «Non c’è metalinguaggio», scrive Leoni sulla scorta di Lacan (p. 83). È per questo che il rimando alle dottrine non scritte platoniche non è casuale. Esse, avanza l’ipotesi l’autore, non sono tali poiché tramandate oralmente. Esse sono non scritte poiché non si tratta più di atti linguistici, ma propriamente di esercizio. Ciò che la cornice mette in moto è lo spirito di separatezza del lettore dall’opera, e l’incolmabilità di tale spazio, poiché colmarlo significherebbe tradirlo. I metafisici, infatti, che vogliono dire il vero sul vero, di quest’ultimo mantengono ben poco. La cornice è la messa in luce di quell’occhio sempre celato al campo visivo e che Wittgenstein, ecco dove sta il passo falso, ha cercato di mostrare, chiudendo il cerchio. «Dire la verità sulla verità non significa sigillare il cerchio, ma mostrare il punto in cui il cerchio non tiene, o non tiene proprio perché tiene o vorrebbe tenere» (p. 90). E ancora, scrive risolutivamente Leoni, poiché non ha senso voler dire il vero sulla cornice del vero, in quanto esso si pone al di là delle determinazioni di verità e falsità, «si tratta di abitare il paradosso sul piano della sua enunciazione» (p. 94). Il limite, la soglia, la morte, come la si voglia chiamare, è il temporeggiare all’interno di tale cornice, che coincide con il temporeggiare stesso del linguaggio che taglia un dentro e un fuori, un vuoto e un pieno, una traccia, una brocca, in seno all’Uno. E si è già detto troppo.
Tornando perciò a ciò che si scriveva sulla topologia e il nastro, è questo il punto nodale, nel senso letterale del termine, quello in cui si vede come l’insufficienza della metafisica aristotelica si esponga pienamente. Non è tuttavia una mancanza, ci dice Leoni attraverso Platone. Se infatti Aristotele cade vittima, egli sì, delle insidie del linguaggio, è forse per eccessivo ottimismo. È perché egli, tramite la sua categorizzazione, aspira all’esaustività, quando invece il residuale, il rimosso, sono la controparte necessaria e non rimuovibile di tale operazione. È di nuovo Platone, colui che nel Parmenide si fermava inorridito, immobilizzato, nel momento stesso in cui gettava lo sguardo nell’abisso, a dimostrare come l’irrazionale non sia in alcun modo rapportabile alla grammaticalità dell’ente o dello stesso essere, non parmenideo, beninteso. Perciò Lacan partorirà alla fine un mostro linguistico come «yad’lun». Non si può significare l’Uno, non si può dire. Ma non perché il linguaggio vede limitate le proprie possibilità; la questione non è la possibilità, come ribadisce Leoni a più riprese. Il linguaggio si consuma nella e con la rinuncia all’Uno. Con la sua rimozione. Con la sua Urverdrängung.
E tutto ciò viene ricondotto da Leoni nel solco di quella distinzione che già in apertura egli aveva tracciato tra etica del desiderio ed etica del godimento. Distinzione che si gioca in seno allo stesso itinerario lacaniano, e che vede i suoi estremi indicati, rispettivamente, nei seminari settimo e ventesimo. Nella comparazione di questi si assiste infatti al delinearsi di due etiche, una cristiana, del differimento e dell’infinitezza di un debito non saldabile (e naturalmente si riconosce a Nietzsche il merito di aver posto in essere tale problema, con e prima di Freud); dall’altro lato sta invece l’etica antica della divinizzazione, del dio aristotelico, dell’atto in atto. Antichità che, come si è visto, viene trattata con la dovuta problematicità.
Ma se noi oggi possiamo mettere in opera tale problematicità è perché nel frattempo abbiamo assistito all’entrata in campo di nuovi dispositivi e strumenti. In primo luogo naturalmente quello del soggetto, perno di una certa riflessione contemporanea, che si riflette anche negli scritti di Lacan, come mostra bene Leoni, nell’analizzare le implicazioni che i passi su linguaggio, vita ed economia hanno su di esso. Dall’altra la nascita di nuove scienze, quali biologia ed ecologia che, loro malgrado, ci mostrano la separatezza della vita da se stessa e in che senso la nascita della vita (o del linguaggio, potremmo dire) sia parimenti nascita della morte. Sono anche questi, temi su cui l’autore si sofferma a più riprese nel corso della trattazione. Se da un lato Leoni rintraccia in Lacan il persistere, in un primo tempo, di una visione ancora “cristianizzata” della soggettività, che vedrebbe in Shylock il proprio antesignano, in cui l’essere soggetto sarebbe legato a doppio filo a una legge che sancisce e garantisce la scambiabilità, la relazione, in subordinazione alla quale il soggetto stesso si costituirebbe (come mancanza, poiché in dipendenza dall’Altro); tuttavia il discorso sull’Uno porta con sé il tentativo di scavalcare il ricorso a tale mancanza costitutiva, e rintracciare l’attualità del pensiero nella forma del taglio. È così che Leoni scrive come il discorso di Lacan che confluisce nel Seminario VII, «Della creatione ex nihilo», sia in diretto contrasto, ancora una volta, con la metafisica aristotelica: «la materia è l’après coup della forma, e la forma è l’après coup del taglio» (p. 43).
Come si accennato, Leoni si confronta anche con le implicazioni politiche dei discorsi che porta avanti, e forse la distinzione tra politica e psicanalisi non ha più neanche senso di essere mantenuta, alla luce della lettura del libro, che tratta della dimensione istituzionale della psicanalisi stessa prendendo ad esempio una pratica tanto controversa quale quella della passe.
Basti dire, e ciò serva a stimolare la curiosità verso un libro che merita la lettura, come la politica che Leoni abbozza, in contrapposizione ad un restaurazionismo sempre in agguato, così come ad un progressismo vuoto di ogni significato, venga da questi caratterizzata come «politica dei divenire». Non resta che seguire l’autore nel suo itinerario.
Nel primo periodo del suo insegnamento Lacan mette l’accento sulla funzione simbolica del linguaggio e della parola. Parte dalla constatazione che la psicoanalisi post freudiana del suo tempo aveva in realtà deviato dal sentiero tracciato da Freud: quelli che Freud aveva individuato come concetti fondati su una logica rigorosa erano invece stati presi in modo immaginario, burocratico, cosa che li aveva resi vuoti, banali, privi di logica. In questo primo periodo Lacan svalorizza gli aspetti immaginari per risituare l’esperienza dell’analisi sul suo asse simbolico. Vale a dire che al centro dell’analisi non c’è il significato, il senso. Il senso nascosto dei sintomi di cui parla Freud non è un significato predeterminato, in cui “x vuol dire y” e y sarebbe qualcosa di “rimosso”, nel senso di nascosto in un baule che dovrebbe essere tirato fuori. Non si tratta di questo, questi sono aspetti immaginari che non permettono che si produca dell’inconscio (che è propriamente la finalità di un’analisi). Il simbolico ha invece a che fare con la parola nella sua dimensione significante – termine che Lacan usa mutuandolo dalla linguistica di De Saussure –, cioè slegata dal significato.
Freud lo dice bene affermando per esempio che il sogno funziona come un rebus. A caratterizzare il rebus è il fatto che le parole valgono non per il loro significato, ma per il loro suono, per le lettere che le compongono. Ebbene, l’inconscio funziona proprio così. D’altra parte la regola fondamentale dell’analisi, l’associazione libera – l’invito a dire qualunque cosa venga in mente senza censure –, si fonda proprio su meccanismi significanti. L’interpretazione in analisi non è allora un’interpretazione di senso ma sul piano significante, e l’analisi permetterebbe – secondo l’elaborazione del primo insegnamento di Lacan – la simbolizzazione anche degli aspetti che non sono di per sé di stoffa significante, cioè di parola, come gli aspetti libidici e pulsionali, che toccano da vicino il corpo. In questa logica, la famosa frase di Lacan non esiste rapporto sessuale – che naturalmente non vuol dire che non si compiano atti sessuali – significa allora che non c’è la possibilità che il rapporto tra i sessi sia simbolizzato, che non esiste parola che lo dica appieno, che tra uomo e donna rimane sempre “qualcosa che non va”, uno iato. Si può anche dire che il rapporto tra i sessi non può essere ridotto a formula, a pura logica. Man mano che Lacan procede nel suo insegnamento, prende però sempre più valore un altro aspetto, relativo al godimento. È la parte della sua elaborazione in cui, pur prendendo le mosse dall’opera di Freud, Lacan è sicuramente andato al di là.
Che cos’è il godimento?
Prima di tutto non va confuso con il piacere. Possiamo parlarne come di un’esperienza di soddisfacimento che riguarda ciascun essere umano. Su questo punto, Lacan riprende da Freud diversi elementi. Innanzitutto, il piccolo essere umano, quando viene al mondo, si trova in uno stato di indigenza e sconforto, cui corrisponde una prima esperienza di soddisfacimento, tramite l’intervento di una persona esterna, grazie a un oggetto (per esempio il seno materno). Lacan dice in più occasioni che se osserviamo un neonato dopo la poppata potremo vedere un’espressione di pienezza e soddisfazione assoluta, di godimento appunto.
Ci sono però altri aspetti in gioco: per esempio, già Freud aveva notato che anche un sintomo che fa soffrire può produrre nel soggetto del soddisfacimento. Ne aveva parlato per esempio nel caso dell’Uomo dei topi, in cui notava sul volto del paziente, che riportava il racconto che aveva udito di una tortura praticata in Oriente, racconto che suscitava in lui il più vivo orrore ogni volta che gli veniva in mente, un’espressione di “orrore di un proprio piacere a lui stesso ignoto”. Cogliamo qui che il concetto di godimento ci proietta decisamente al di là di una logica del bisogno: il neonato che aveva fame e si è saziato, con la sua espressione beata, ci dice che si è prodotto, rispetto al semplice soddisfacimento del bisogno, un di più, ed è alla ripetizione di questo “di più” che da quel momento il soggetto tende; non si tratterà più solo di placare la fame. Il godimento quindi tocca in primis il corpo, e alla fine degli anni ’60 Lacan dice che «un corpo è fatto per godere, godere di se stesso». Se inizialmente aveva ipotizzato che la dimensione corporea del godimento potesse essere del tutto riassorbita dal simbolico, in seguito coglie che ciò non è possibile: anche al termine di un’analisi questa dimensione permane, per quanto non immutata. Infine – ce lo insegna per esempio l’espressione che Freud individua sul volto dell’Uomo dei topi – il godimento può coesistere con l’orrore, ma anche con il dolore. La persona soffre, ma al tempo stesso è invasa da un godimento che neanche riconosce come tale; è l’analisi che può permetterle di riconoscerlo, e di separarsene almeno un po’. Il godimento però, nell’esperienza umana, non è mai completo e durevole. Per l’essere umano esso è perduto da sempre, interdetto; quello che ne possiamo esperire nella nostra vita sono briciole, frammenti, attimi, e questo spinge ogni volta di nuovo alla ricerca di soddisfacimento, tramite la parola o gli oggetti. Sì, perché la parola non è fuori da questo gioco. La parola stessa produce un godimento.
L'elaborazione di Lacan è molto importante perché offre degli strumenti per comprendere i fenomeni clinici (con “clinici” possiamo intendere tutto ciò che, della vita quotidiana, viene portato in analisi) del nostro tempo, che sono in parte diversi da quelli di cui ha parlato Freud, perché diverso è il discorso dell’epoca. Nei primi del ‘900 così come oggi sono in gioco, per gli esseri umani, sia l’interdizione (castrazione) sia il godimento, ma mentre all’epoca di Freud era la dimensione dell’interdizione, della regola, della rinuncia, e quindi del desiderio, a ordinare la vita soggettiva, familiare e sociale, oggi godi! è l’imperativo cui tutti siamo sottoposti senza sosta. Viviamo nel mondo degli oggetti che possono soddisfarci e renderci tutti belli, giovani, sani, performanti; ciò ha assunto la valenza di un obbligo: puoi godere, quindi devi godere! Il sesso non sfugge a questa logica.
Ma allora, che ne è oggi del rapporto sessuale?
Anche sul piano del godimento, possiamo affermare che non c’è rapporto sessuale. C’è differenza tra il versante maschile e il versante femminile, ma per nessuno dei due il godimento “fa rapporto”, produce condivisione. Il godimento, anche quello dell’atto sessuale, resta non condivisibile. Ciascuno gode sempre dalla sua parte. Il godimento non produce rapporto sessuale perché il corpo “si gode”. Per questo Lacan può dire che «due corpi non possono fare uno». Solo nell’illusione dell’amore si può fare uno con l’altro ma, come ciascuno sa, è un’illusione di breve durata. L’amore è un velo sull’inesistenza del rapporto sessuale, e come ogni velo ricopre ma al tempo stesso lascia intravedere quel che c’è sotto.