L’impersonale. Si pensa, si sente, si crea / The impersonal. It is thought, it is felt, it is created
(III, n.5, settembre 2016)
A cura di Carlo Molinar Min e Giulio Piatti
Il tema dell’impersonale costituisce il fulcro di un dibattito odierno forse sfuggente ma variamente presente in assi tematiche e ambiti di ricerca assai differenti. Si tratta, molto in generale, di un tentativo di rimettere in discussione la nozione di soggettività, antropologicamente circoscritta, per giungere a teorizzare una sorta di spazio impersonale, capace di fondare e articolare le linee dell’intero piano della realtà concretamente esperibile. Si potrebbe obiettare che un simile tema mantenga un’impostazione di tipo “metafisico”, intesa in senso negativo, come fautrice di una speculazione antiquata, piattamente astratta e slegata dalla contemporaneità. A questa obiezione, che tende a schivare con forse troppa leggerezza gli ammonimenti heideggeriani e derridiani – è possibile uscire dall’epoca della metafisica? O meglio, è possibile una filosofia che non sia per ciò stesso metafisica? – corrisponde un atteggiamento oggi ben radicato, che tende a svalutare il pensiero “puro”, considerato logoro e inadatto a cogliere le linee in cui si articola il mondo di oggi. Ora, è piuttosto facile rispondere a questa obiezione mostrando quanto un pensiero esplicitamente metafisico possa essere al contempo vigorosamente attuale: si prenda a titolo di esempio la figura di Gilles Deleuze, la cui riflessione scotista sull’univocità molteplice del reale finisce per chiamare in causa il problema della distribuzione dello (e nello) spazio politico. In effetti così interpretato il pensiero filosofico, lato sensu, anche il più distante dalla dimensione materiale della prassi, nell’atto stesso del suo porsi non può che implicare al contempo una concreta riflessione sulla realtà. Più precisamente – ed è l’ipotesi che vorremmo vagliare proponendovi il presente CFP – la filosofia teorica per eccellenza, la prote philosophia come pensiero della meraviglia e dell’astrazione, non è tale (“filosofia prima”) se non per la sua specifica capacità di cercare – a partire dai diversi ambiti del sapere – le ragioni e le modalità di questo primo incontro con il reale. Prendendo le mosse da una certa tradizione di pensiero, si tratterebbe allora di considerare come genuinamente “Metafisico”, e pertanto autenticamente filosofico, il tentativo di cogliere l’esperienza nel suo nascere. Significherebbe, in altre parole, approfondire la ricerca del fondamento immettendola in un processo che precede ogni polarità e che risale, appunto, al livello prettamente impersonale.
Da un lato, dunque, affrontare l’impersonale altro non significa se non riformulare la questione trascendentale della fondazione, ossia del rapporto e della connessione tra dato empirico e pensiero, concetti e realtà, ontologia e epistemologia, soggetto e oggetto, anima e corpo. Occuparsi dell’impersonale può voler dire porre una questione dal sapore evidentemente genetico, volta a indagare il sorgere stesso del reale; quel momento intensivo che ci fa transitare verso la realtà che esperiamo quotidianamente, dal piano di immanenza deleuziano alla spaziatura derridiana, passando per la questione della sintesi passiva in Husserl – per limitarsi a qualche breve esempio. D’altra parte riflettere sull’impersonale significa praticare un pensiero critico nei confronti di un’istanza, quella del soggetto, che costituisce ancora uno dei poli problematici fondamentali della riflessione filosofica. Dalla critica “biopolitica” dell’interiorità agostiniana e della nozione di “persona” al ripensamento profondo (antropologico, farmacologico, sferologico) della tecnica, passando per l’atmosferologia come decostruzione dell’introiettivismo patico, chi si interroga sull’impersonale ambisce così a demitizzare gran parte del soggettivismo che ha caratterizzato la riflessione filosofica almeno da Descartes in avanti.
Non meno importanti i contributi provenienti dal côté più strettamente biologico e vitalista, che prende le proprie mosse dalla vivace ricezione francese del bergsonismo nel secondo dopoguerra. A orientare questo filone è l’idea di un divenire organico della vita, in opposizione ai vari riduzionismi neopositivistici – fisiologia, psico-fisica, etc. - promotori di una suddivisione del vivente in semplice somma di parti meccaniche, aggregabili e quantitativamente misurabili. Figure come Raymond Ruyer, Georges Canguilhem e Gilbert Simondon, tra le altre, inaugurano così un pensiero fisico-biologico (e filosofico) che pone il proprio accento sul rapporto tra individuo e ambiente, tra virtualità preindividuale e meccanismi di attualizzazione.
E’ infine ovviamente il campo dell’arte e della riflessione estetica a poter dare importanti contributi al tema dell’impersonale. Opere informali e astratte come quelle di Rothko, Bacon e, in un certo senso, Cézanne, hanno impegnato generazioni di critici a partire dalla questione di una realtà insieme preumana e genetica. Strettamente connesso a questi temi è l’ambito della ricerca cinematografica, quello da cui emerge con più forza – dall’occhio della macchina da presa in Vertov fino alle sperimentazioni di Brackhage – la tematica di un’immagine in sé, ormai priva di un ancoramento soggettivo. Nondimeno anche il campo letterario, in particolare attraverso l’apporto di Maurice Blanchot – forse la fonte comune a tutto il pensiero francese “post-strutturalista” – si è interrogato sull’idea di una voce impersonale, terza persona anonima che articola un discorso libero indiretto, nel quale non si sa se a “parlare” – o, più propriamente, a “essere parlato” - sia l’autore o il personaggio.
La questione dell’impersonale, al di là di simili presupposti condivisi, non ha evidentemente limitazioni tematiche né frontiere ben circoscrivibili, ma si distribuisce piuttosto all’interno di una serie di incroci tra punti di vista e contesti cronologico-geografici differenti, che il seguente numero vorrebbe provare a far dialogare.
*Atti del convegno svoltosi a Torino il 28 e 29 aprile 2016, organizzato da Gaetano Chiurazzi, Carlo Molinar Min e Giulio Piatti, con il patrocinio dell’Università degli Studi di Torino e del dipartimento di Filosofia e Scienze dell’educazione, e in collaborazione con Philosophy Kitchen. Rivista di filosofia contemporanea.
Si desidera qui ringraziare il professor Roberto Salizzoni per il sostegno e i preziosi suggerimenti nel corso delle fasi di organizzazione del convegno.
Alla voce “posthumanism” Wikipedia elenca sette possibili sfumature semantiche del termine, tutte riconducibili a diverso titolo a questa controversa nozione: si menzionano l’anti-umanismo, il postumanismo culturale, il postumanismo filosofico, la condizione postumana, fino ad arrivare ai massimalismi di transumanismo, Al Takeover ed estinzione volontaria dell’uomo. Ora, senza entrare nel merito di questa catalogazione – che come tale implica una certa arbitrarietà – cercheremo di presentare il saggio di Antonio Lucci Umano Post Umano (Inschibboleth, 2016), azzardandone una collocazione all’interno del cosiddetto postumanismo filosofico. Premessa: “postumano” indica un ambito delle scienze umane distante da una stabilizzazione disciplinare; i margini tematici a cui richiama sono sfrangiati ed estremamente porosi, continuamente soggetti a sconfinamenti e ampliamenti epistemici – di carattere sia inclusivo sia esclusivo. Dagli anni ’70 fino a oggi, infatti, l’idea di poter parlare di “postumano” nei termini di una questione culturalmente rilevante ha fatto sì che il sintagma “post” – su cui pesa tutta la portata della sua novità concettuale – divenisse l’oggetto di innumerevoli branche delle humanities. Con buona probabilità il motivo di questa fortuna è dipeso dal fatto che parlare di post-umano significhi, più o meno consapevolmente, testare la tenuta di un’idea di scienza – “umana” appunto – che mai come oggi pare minacciata da un preoccupante autosuperamento. L’espressione post-umano effettivamente, come ricorda anche Wikipedia, richiama tanto all’idea di crisi quanto alla categoria generale del “salto al di là”, sia storico (after Humanism) che locale (beyond Humanism). Posthumanism va dunque maneggiato come si maneggia un sintomo, concertando prudenza e perizia. Sarebbe eccessivamente sbrigativo liquidare l’emersione prepotente di questa nozione riducendola a un che di passeggero o magari, per additarne l’inconsistenza, a un evanescente fenomeno mediatico. E’ vero, la confusione non manca: l’oggetto su cui si dibatte rimane il più delle volte nascosto dietro un’impenetrabile cortina di nebbia concettuale; le metodologie di analisi talvolta si combinano seguendo giustapposizioni naïf, talaltra si arroccano su anguste posizioni protocollari figlie di specialismi nati l’altro ieri. Eppure, come vedremo, navigando a vista tra interdisciplinarità e tecnicismo, è ancora possibile mantenere un certo equilibrio, tale da consentirci di formulare una risposta plausibile alla domanda “cosa significa postumano?”.
Nella seppur sterminata letteratura critica dedicata a Edmund Husserl, il saggio di Francesca Dell'Orto, Vita e genesi del tempo. Ricerche di fenomenologia genetica e generativa, Pisa, ETS 2015, rappresenta un contributo assai rilevante per la comprensione delle tematiche fenomenologiche del tempo e della vita. Come l'Autrice nota in apertura del volume, se Husserl si è impegnato strenuamente per risolvere la complessissima questione della temporalità trascendentale - come dimostra la grande quantità di manoscritti raccolti nei volumi X e XXXIII dell'Husserliana, che coprono un arco temporale che va dal 1905 agli ultimi anni di vita del filosofo - lo stesso non si può dire della nozione di vita, la cui presenza carsica non diventa mai oggetto di interrogazione tematica, ma induce a pensare - con R. Barbaras - che la vita resti il grande concetto impensato della fenomenologia di Husserl. Eppure, è assai noto come la riflessione husserliana più matura ponga al centro le nozioni di Lebenswelt e lebendige Gegenwart, in cui la radice Leben è evidente. Dunque, l'obiettivo che Francesca Dell'Orto persegue in questo testo è ripensare il trascendentale nella sua articolazione originaria con il tempo e la vita. In questa prospettiva, la vita trascendentale è tutt'uno con la vita immanente della coscienza nel suo incessante fluire: vivere è esperire la vita, anche nel senso di "essere affetti da" essa, nel suo dispiegamento intenzionale. Da ciò consegue che, anche nelle sue manifestazioni più semplici, la vita coincide col processo della fenomenalizzazione: essa non è semplicemente un "restare in vita", ma implica sempre una dimensione di rapporto col mondo che rende possibile l'apparire come tale. In altri termini, per Husserl la vita è il «processo stabile e costante del farsi mondo, l'eterno presente vivente pre-egologico e trans-egologico che nella sua massima trascendentalità si confonde con la massima fatticità» (pp. 11-12). L'Autrice articola questa tesi di fondo lungo nove capitoli, che ricostruiscono le tappe essenziali della meditazione husserliana sul tempo, sulla vita e sulle questioni derivanti dalla loro interazione. Dopo aver messo a fuoco, nel primo capitolo, la portata dell'influenza delle teorie brentaniane dell'associazione originaria e della Proterästhese sulle prime ricerche di Husserl sul tempo, l'Autrice affronta nel secondo capitolo il tema dell'individuazione dell'io. In linea con un'indicazione di Enzo Paci, emerge in queste pagine una concezione della fenomenologia come pensiero della relazione che, come tale, non può che costituirsi come fenomenologia del tempo e dell'individuazione. Tuttavia, il processo di individuazione non dev'essere concepito come la formazione di una coscienza monoliticamente assoluta, ma come una dinamica di auto-differenziazione della coscienza da se stessa. Il terzo capitolo prende in esame una delle questioni più complesse del pensiero husserliano, ossia il rapporto tra fenomenologia e ontologia. In riferimento all'annosa quanto inevitabile questione della rottura con Heidegger, Dell'Orto - sulla scorta delle analisi di Merleau-Ponty, Beaufret e Marion - chiarisce il reciproco fraintendimento in cui sono incorsi Husserl e Heidegger: se da un lato Husserl non ha saputo riconoscere in Essere e tempo un genuino sforzo fenomenologico teso a distinguere l'essenziale scarto tra l'essere e gli enti mondani, dall'altro lato Heidegger ha sottostimato le riflessioni husserliane sulla fatticità e sulla strutturalità della genesi, che gli avrebbero probabilmente permesso di includere l'esistenza nella problematica trascendentale.
Il quarto capitolo, dopo aver ricostruito l'analisi husserliana della ritenzione, distinguendola dai vari gradi del ricordo, dalla costituzione dell'oblio e dall'associazione primaria, si focalizza sulla dimensione intersoggettiva del ricordo. Come afferma l'Autrice, «la coscienza della temporalità è un'auto-differenziazione che apre la trascendenza di un'alterità nel cuore stesso dell'immanenza. L'auto-alienazione, l'alterità che l'io diventa per se stesso già al livello della costituzione primordiale della coscienza del tempo [...], inaugura la possibilità di ogni altra forma di datità: l'alterità primaria che l'io diviene per se stesso rende insomma possibile tutti gli altri modi dell'alterità» (pp. 136-137). Sulla base di queste considerazioni, il quinto capitolo affronta il problema della protenzione, ricostruendo i passaggi che, dalle Zeitvorlesungen del 1905, hanno condotto Husserl ai Bernauer manuskripte del 1917-'18, in cui la protenzione è sempre meno il corrispettivo futuro della ritenzione e sempre più una funzione autonoma dello Zeitbewusstsein. Di particolare interesse in questo capitolo è la discussione dell'orizzonte protenzionale come orizzonte intersoggettivo: in questa prospettiva, «fondare l'intersoggettività garantendole uno statuto altrettanto originario di quello della soggettività significa assicurare un'apertura strutturale, non solo esperienziale, al riconoscimento dell'alter ego» (p. 155). La conseguenza essenziale della temporalizzazione della coscienza è dunque la configurazione del soggetto come costitutivamente aperto all'alterità.
Dopo aver analizzato, nel sesto capitolo, il rapporto tra temporalizzazione e spazializzazione della coscienza, il settimo capitolo introduce il metodo genetico come tentativo di superare le aporie del metodo statico lasciato a se stesso. Qui l'Autrice mostra lucidamente come la nozione di Unbewusst, inconscio, rappresenti lo strato ultimo della costituzione passiva della soggettività trascendentale. Husserl comprende, nel cuore delle Lezioni sulle sintesi passive, che il campo della presenza non corrisponde necessariamente al campo intenzionale dell'io, ma può restare sullo sfondo come orizzonte vuoto. Esso va concepito piuttosto come un alone di assenza che circonda qualunque coscienza affettiva e impressionale: è attraverso il ricordo o la coscienza d'immagine che l'inconscio così inteso può essere attualizzato e ricondotto all'intenzionalità cosciente. L'ottavo capitolo prende in considerazione la questione della motivazione attraverso un confronto serrato con lo schematismo kantiano. Infine, il nono capitolo tematizza l'interesse dell'ultimo Husserl per la storicità come ampliamento della tematica temporale e sintesi con quella della vita trascendentale.
In conclusione, il maggior pregio di questo eccellente testo è di fornire una visione d'insieme della fenomenologia husserliana attraverso la tematizzazione di alcune questioni essenziali, quelle appunto del tempo e della vita trascendentale. Chi avrà la pazienza di mettersi in ascolto dei testi husserliani - un ascolto lento e un esercizio ripetuto che rifugge giudizi e critiche frettolose - troverà in questo libro di Francesca Dell'Orto una preziosa guida, uno spartiacque in grado di condurre attraverso le aporie più vertiginose dei manoscritti husserliani. Tuttavia, lungi dall'avere un mero scopo didattico, questo testo si impegna teoreticamente nello sviluppo di una tesi centrale, secondo cui «il mondo è prodotto dalle operazioni concretamente fungenti, e parallelamente temporalizzatrici, dell'intenzionalità passiva che, intersecandosi l'una nell'altra e concatenandosi l'una dopo l'altra, si autotrascendono in un orizzonte esterno, non più riducibile ai singoli vissuti individuali; un orizzonte così complesso da sembrare assolutamente a priori, una Lebenswelt trascendentale precedente a qualunque Erlebnis che trovi in essa dispiegamento, che cela invece più in profondità la forma mobile del "volta per volta"» (p. 273).
Solo alla luce di queste analisi possiamo davvero comprendere, con Hans Blumemberg, che «il mondo richiede tempo».