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Il progetto Homo Sacer, conclusosi con la pubblicazione di L’uso dei corpi, ha al suo centro una casella vuota: manca, infatti, del volume II.4, quello situato tra II.3. Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento e II.5 Opus dei. Archeologia dell’ufficio. Una casella vuota che è al contempo, per dirla con il Deleuze di Logica del senso, un oggetto soprannumerario che percorre serie eterogenee introducendo convergenze o disgiunzioni. Quest’assenza al cuore del progetto archeologico di Agamben, questo posto senza occupante e occupante senza posto, fa di Homo Sacer un’opera eccessiva e difettosa, compiuta (dai toni, per molti versi, definitivi) ma al contempo incompiuta, o meglio abbandonata, deposta, dunque ancora attraversata da tensioni che vanno interrogate. Ne sono consapevoli Antonio Lucci e Luca Viglialoro, curatori del volume G. Agamben. La vita delle forme, edito da Il Melangolo, i quali nel tentativo di tracciare «una morfologia del pensiero di Agamben, indagandone alcune diramazioni» (p. 9), devono fare i conti con un’opera «compiuta-incompiuta» che costringe «a tracciare un movimento non concluso del suo oggetto di indagine esibendone così, per l’appunto, la vita» (ibidem).
Il volume contiene quindici contributi suddivisi in tre parti. La prima, Dopo Homo Sacer. Archeologia di un progetto filosofico, può essere definita, nelle sue linee principali, un’«archeologia dell’archeologia» (per riprendere il titolo dell’introduzione, scritta da Agamben, a La linea e il circolo di Enzo Melandri), nella quale vengono ricercati, nelle prime opere agambeniane, quei momenti paradigmatici che si ritroveranno in tutto Homo Sacer. La seconda, Il corpo glorioso e i suoi usi, nell’intrecciare questioni epistemologiche, teologiche e politiche, risulta nella sua brevità la parte più eterogenea del volume, nella quale emerge più chiaramente la «struttura reticolare […], l’intreccio multilineare di forme» (ibidem) che caratterizzano gli scritti dell’autore. La terza, Agamben (nel) contemporaneo, misura l’«inattualità» (p. 11) del filosofo romano: è la parte in cui si trovano i due testi più frontalmente critici, quello di Judith Revel e Federico Luisetti, i quali mirano a esibire gli effetti destoricizzanti del suo discorso.
Lucci e Viglialoro dispongono i contributi in modo da dare al volume una struttura reticolare capace di rendere conto dell’«intreccio di forme», pocanzi accennato, di cui si compone il «dispositivo scritturale agambeniano», un dispositivo «all’interno del quale insistono delle urgenze» (p. 9). Se il dispositivo rimanda, per dirla con Foucault, a un’operazione strategica che fa fronte a un’urgenza, l’urgenza del volume di Lucci e Viglialoro sembra proprio quella di far fronte a un dispositivo. Quando si parla di Agamben, infatti, la posta in gioco è senz’altro teorica e politica, ma lo è solo perché primariamente meccanologica. Tutta l’opera di Agamben è popolata da una moltitudine di macchine: macchina teologica, macchina giuridica, macchina ontologico-politica (con la sua variante ontologico-biopolitica), macchina antropogenetica, ecc. Capire la funzione di queste macchine o, anche, come abbiano preso consistenza intorno alla loro funzione, non è un semplice esercizio d’ingegneria filosofica: ne va, infatti, della possibilità di ripensare il politico. Queste macchine sono riconducibili a una macchina astratta che possiamo chiamare macchina bipolare. La macchina bipolare svolge essenzialmente un’operazione, quella di separare (il sacro dal profano, la norma dal fatto, bíos da zoé, l’umano dall’animale). Ma questa operazione non è sufficiente per rendere conto del dispositivo agambeniano: la macchina bipolare implementa un’altra funzione, quella del disporre. I termini separati sono disposti in modo tale che uno finirà per subordinare l’altro. Ci sembra opportuno, allora, attraversare il volume mantenendo ferma una prospettiva meccanologica, capace di mostrare il corpo a corpo con il quale la maggior parte dei contributi si confronta con questo dispositivo/macchina bipolare.
Se nell’intervento di Dario Gentili la macchina bipolare diventa il «dispositivo della crisi» che, in tutto il progetto Homo Sacer, «'separa' e 'dispone' in una relazione di potere gli elementi che cattura nella sua rete» (p. 51), Timothy Campbell ne mette in risalto la valenza tanatopolitica, che emerge in tutta la sua chiarezza se confrontata con la funzione del dispositif deleuziano. In Deleuze «il dispositivo condiziona la produzione di soggettività, ma evidenzia anche le linee lungo le quali la soggettivazione prodotta crea linee di fuga che confluiscono a propria volta in altri dispositivi» (p. 205). In Agamben, invece, nella società contemporanea, la proliferazione di dispositivi produce essenzialmente de-soggettivazioni (dividui, potremmo dire): a tal proposito sarebbe interessante leggere il contributo di Campbell affianco a quanto, sul dispositivo agambeniano, scrive Stiegler in Prendersi cura. Agamben non riconoscerebbe, secondo Stiegler, la natura farmacologica dei dispositivi, che di volta in volta possono produrre soggettivazione o de-soggettivazione, processi di individuazione o di dividuazione. Ciò si risolve, in Agamben, nell’elezione dell’inoperosità a unica modalità di disinnesco della macchina bipolare.
La prestazione originaria della macchina bipolare è, infatti, ontoteologica: se, sul versante teologico, funziona separando e disponendo il sacro e il profano, subordinando quest’ultimo al primo, sul versante ontologico separa e dispone l’atto dalla potenza, facendo del passaggio all’atto il momento preminente. Elettra Stimilli, nel suo contributo, si concentra proprio sul concetto di potenza, «nucleo incandescente» (p. 17) della riflessione agambeniana. Lo sforzo principale di Agamben sarebbe quello di pensare l’esistenza della potenza al di là di una sua relazione con l’atto. Ciò si traduce nel disattivare la volontà e il dovere che, come operatori metafisici, sono alla base dell’ontologia dell’effettualità per la quale «l’essere è qualcosa che deve essere realizzato e messo-in-opera» (cit., p. 27). All’operazione della macchina bipolare deve subentrare l’inoperosità, che rimanda a un differente uso del mondo «intimamente connesso a una vita che, come la potenza dell’atto, non sia separata dalla sua forma, 'una vita per la quale, nel suo modo di vivere, ne va del vivere stesso e, nel suo vivere, ne va innanzitutto del suo modo di vivere'» (p. 29). Questa vita è forma-di-vita: Antonio Lucci ne ricostruisce la storia sostenendo che «tutta la filosofia agambeniana che è racchiusa nel concetto di forma-di-vita rappresenta il tentativo di porre in costante relazione e tensione il concetto di soggetto [inteso come processo di soggettivazione], a quello di opera [intesa come opus]» (pp. 69-70). La forma-di-vita, infatti, si dà nella coincidenza tra lavoro all’opera e lavoro su di sé. Lucci sembra consapevole di muovere da una prospettiva mediologica più fedele a Sloterdijk che ad Agamben, nella quale il lavoro su di sé fa leva sul medium dell’opera: il concetto di tensione, da lui utilizzato in maniera strategica, è già un modo di pensare oltre Agamben, in quanto rimanda a una declinazione diversa del concetto di relazione che, come vedremo, verrà messa in luce dal contributo di Vittoria Borsò. In Agamben la forma-di-vita abita una soglia di indiscernibilità nella quale i termini di un’opposizione (forma e vita, potenza e atto, essere e prassi) cadono assieme, vengono deposti: Agamben spezza la relazione, risultato dell’operazione della macchina bipolare, con l’obiettivo di portare alla luce un puro irrelato. L’inoperosità è il contro-dispositivo che rende ciò possibile. Scrive Gentili: «il contatto di bíos e zoé è una soglia in cui la loro indiscernibilità si tiene in sospeso rendendo inoperosa la macchina ontologico-biopolitica che opera il loro discernimento e la loro discriminazione» (p. 62). In questo senso, però, come sostiene Stimilli: «Agamben finisce […] per non allontanarsi da un’univoca definizione metafisica del dispositivo dell’operatività che […] rischia di apparire non del tutto sufficiente per una critica del presente, se privata di un confronto con i meccanismi di potere storicamente determinati e di volta in volta funzionanti» (p. 31). In altre parole, potremmo dire che se i meccanismi di potere storicamente determinati si risolvono di volta in volta in una specifica gestione delle condotte contro le quali possono essere mobilitate specifiche contro-condotte (Foucault); a un meccanismo di potere metafisicamente determinato (la macchina bipolare) non si può che opporre, una volta per tutte, un contro-dispositivo che fa leva sull’inoperosità (Agamben).
L’univoca definizione metafisica di cui parla Stimilli è il risultato della de-storicizzazione connessa al metodo archeologico agambeniano che va di pari passo con la negazione di un’ontologia relazionale e operativa. Sulla de-storicizzazione si concentrano i contributi di Judith Revel e Federico Luisetti. Per Revel il campo come paradigma della modernità presuppone un arci-campo, un campo-matrice, che rivelerebbe il meccanismo e la funzione ultima di ogni campo che storicamente ha visto la luce. La novità che emerge storicamente sarebbe così neutralizzata nella ripetizione dell’identico, dal riproporsi di un anacronismo. Il campo, per Agamben, è il luogo in cui biopolitica e tanatopolitica, produzione di vita e produzione di morte, si confondono. Ma per Revel «produrre la morte» è un’espressione senza alcun senso e la biopolitica, che secondo l’autrice è legata storicamente a un potenziamento, alla produzione di un surplus di valore, non può essere confusa con la tanatopolitica: «è tempo di chiamare le cose con il loro nome: le filosofie del negativo non sono filosofie della potenza, la bio-politica non è tanato-politica, l’uomo non è un animale, tutti i campi non sono gli stessi, tutti gli eventi non sono permessi. È tempo di riapprendere a pensare nella storia» (p. 264). Luisetti, dal canto suo, ritiene che il metodo archeologico agambeniano non solo dissolverebbe ogni empiricità ma, soprattutto, occulterebbe lo stato di natura della modernità, il quale sta alla base della distinzione tra civilizzato e selvaggio, cultura e natura, politica ed economia. Lo stato di natura moderno è in Agamben «costantemente smembrato e duplicato in una serie arcaica e in una escatologica […], l’archeologia filosofica […] ha questa funzione di accecamento, opera al servizio della forclusione della modernità occidentale e del suo stato di natura coloniale, trascendentale e naturalistico» (p. 235). L’archeologia, anziché «provincializzare l’Occidente», liberando quelle esteriorità selvagge capaci di resistere alle sue pretese egemoniche, ne «rafforza la fantasmagoria ontoteologica» (p. 242).
Vittoria Borsò, oltre a insistere sul carattere destoricizzante del progetto Homo Sacer, che coincide con la «sostituzione della storia con la matrice storicamente invariabile del campo di concentramento inteso come paradigma della modernità» (pp. 115-116), riconduce la riflessione agambeniana a un pensiero della catastrofe opposto a un pensiero del disastro. Se in quest’ultimo la povertà dell’ente si apre a un’ontologia generativa di cui sarebbero espressione non solo la scrittura di Blanchot e i lavori di Jean-Luc Nancy e Roberto Esposito, ma anche l’ontologia operativa di Gilbert Simondon e Bruno Latour; con il pensiero della catastrofe, da una parte, si rimane legati alla promessa di una redenzione messianica che interrompa il corso catastrofico del tempo, e, dall’altra, si presuppone l’azione «di un soggetto agente poietico, che porti al collasso della politica tramite un estetica della distruzione e dell’inoperosità, capace di destituire ogni matrice (bio-)politica (Bartleby)» (p. 115).
In altre parole, se per Revel e Luisetti occorre ridimensionare la portata universalizzante e archetipica della macchina bipolare, distanziandosi dalle vocazione metafisica dell’archeologia agambeniana e rimettendo al centro della riflessione la storia; per Borsò occorre pensare la relazione non come l’effetto della macchina bipolare che divide e dispone ciò che in partenza è irrelato, ma a partire da un’ontologia operativa per la quale l’essere, utilizzando la terminologia di Simondon chiamato in causa dalla stessa Borsò, è sempre più-che-unità e più-che-identità, sempre sfasatura e processo. Il potere destituente (macchina destituente o contro-dispositivo), nel tentativo di neutralizzare i processi di dividuazione (de-soggettivazione), neutralizza anche i processi di individuazione (soggettivazione): e se permane l’ombra di un’individuazione soggettiva nelle forme della contemplazione e dell’inoperosità, scompare radicalmente la possibilità di un’individuazione collettiva, di un trans-individuale. Lucci, nel suo contributo, rileva proprio questo problema: Agamben, ne L’uso dei corpi, rinuncia a pensare una forma-di-vita comunitaria. Il concetto di tensione, da Lucci utilizzato, vuole salvaguardare la possibilità di pensare una forma-di-vita trans-individuale: «se non applichiamo tra opera e inoperosità il concetto di 'tensione', quello di inoperosità rischia di chiudersi nel solipsismo, nell’immobilismo, in una certa qual forma di ieratica contemplazione da saggio orientale […], la politica, l’arte e la felicità possono essere pensate solo come una tensione continua tra un pensiero e fare, tra opera e inoperosità, se non si vuole che l’inoperosità si traduca immediatamente in immobilità» (p. 88).
Il saggio di Lucci condensa bene quello che mi sembra lo spirito dell’intero volume: pensare con Agamben ma anche oltre Agamben. Lo stesso Agamben, nel lasciare al centro della sua imponente opera una casella vuota, nel considerare abbandonato e non concluso il suo progetto, sembra indicare la possibilità non solo di un suo proseguimento da parte di altri, ma anche di un suo radicale ripensamento.
di Luca Fabbris
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Take away #5. La burocrazia spiegata a uno svedese
Serial / Aprile 2015Bentornati all'unica rubrica italiana di filosofia a portar via. In questa puntata ci occuperemo di un tema universalmente ritenuto quanto più lontano possibile dalla filosofia, e proveremo a vedere fino a che punto esso si lascia riassumere in una comprensione.
Il tema in questione è quello della burocrazia, e il nostro parlarne assumerà un tono o un taglio filosofico attraverso un escamotage: quello di immaginare di dover spiegare il funzionamento e la genesi di questo particolare gioco umano a chi non sia mai venuto in contatto con esso, esplicitandone la razionalità nascosta.
Prima di iniziare, tuttavia, sono necessarie un paio di avvertenze preliminari. La burocrazia si intende qui non “in generale”, ma sotto l'aspetto specifico che essa prende in Italia, non come mezzo di trasmissione di decisioni, informazioni e strumento gestionale, ma come realtà concreta con cui chiunque interagisce di continuo. Lo svedese, per contro, rappresenta il caso eccezionale di colui che non è mai venuto a contatto con tale realtà, e può quindi – contrariamente a quanto purtroppo succede a noi, che reagiamo perlopiù con cinica rassegnazione – stupirsene.
L'esperimento mentale
Uno svedese da poco tempo in Italia, che chiameremo Sven, ha bisogno di un documento importantissimo ed urgente. Si avvia quindi verso il più vicino ufficio X, la cui funzione precipua è appunto quello di elaborare, redigere e distribuire una gamma di documenti e certificazioni, fra cui quello di cui S ha bisogno.
Entrando nell'ufficio X, tuttavia, S nota immediatamente che, nonostante il personale, separato dalla gente da un bancone e da una curiosa barriera di plexiglass traforata – sconosciuta in gran parte dell'Europa continentale – sia assai numeroso, e nonostante l'ufficio abbia appena aperto i battenti, un assembramento di persone malamente ordinato in file serpentine già occupa l'area aperta al pubblico dell'ufficio.
Sven, scelta la fila più breve, si mette in coda e attende con pazienza il suo turno. Si accorge tuttavia che la sua fila scorre più lentamente delle altre. Alcuni utenti già migrano, spostandosi verso le altre file, ma S rimane fiducioso al suo posto fino a quando, arrivato in fondo, si trova davanti un impiegato dell'ufficio. Questi ascolta a malapena ciò che Sven ha da dire, e subito lo interrompe comunicandogli che quello non è il giusto sportello a cui rivolgere le sue richieste. Anzi, probabilmente l'ufficio X quel documento non lo fa più. O forse sì. Sven, a questo punto, disorientato e stizzito, alza la voce protestando contro la mancanza di preparazione dell'impiegato. Questi adduce ripetutamente scuse e poi chiama un collega, che dopo aver ascoltato, indica sorridendo a S un altro sportello al quale presentare la sua richiesta. A S, dunque, non resta che rimettersi in fila, in un'altra fila, ed attendere nuovamente il suo turno. Questa volta, al termine dell'attesa, riesce finalmente a presentare la richiesta ad un terzo impiegato, scorbutico e malmostoso, che però dopo averlo ascoltato fornisce il modulo, le indicazioni per compilarlo ed altre informazioni necessarie. Sia la forma che la procedura della pratica appaiono inutilmente bizantine a S, che se ne lamenta ricevendo in cambio la simpatia dell'impiegato, che alza gli occhi al cielo dichiarando che quel modo di lavorare è un problema anche per lui, che ha già provato inutilmente a presentare reclami, e che purtroppo in Italia...
Capita l'antifona, S si allontana provato e confuso. Per quale motivo le cose funzionano così male? L'ufficio X gli sembra costruito apposta per mettere alla prova la pazienza e la buona volontà degli utenti: in esso si verifica una dinamica perversa di rallentamenti e complicazioni semplicemente inutili dal suo punto di vista, e facilmente risolvibili. Dopo tutto, basterebbe che gli uffici fossero un po' più simili a quelli svedesi e il carico di lavoro sarebbe meglio gestibile, meglio gestito, gli utenti più contenti e i lavoratori pure. Eppure, tali complicazioni sembrano accettate da chiunque – impiegati ed utenti – come inevitabili, irrisolvibili e eterne. Per quale ragione?
Per rispondere a tale domanda, a uso degli occasionali svedesi e dei molto meno occasionali italiani, ricorreremo ad una serie di considerazioni genetiche riguardo alla formazione e all'intreccio di funzioni eterogenee che decidono – in modo molto meno accidentale e perverso di quanto si potrebbe pensare – delle caratteristiche apparentemente paradossali dell'ufficio X. In primo luogo, occorre notare che le considerazioni di Sven sono perfettamente corrette: l'ufficio X svolge la sua funzione di produzione di certificazioni e documenti, che chiameremo funzione Y, in modo tremendamente inefficiente.
Ciò che Sven non sa, tuttavia, è che oltre alla funzione Y, l'ufficio svolge una seconda funzione Z, ovvero la funzione di trovare un posto di lavoro ad una serie di soggetti raccomandati da qualche alto funzionario o personaggio politico. La funzione Z è essenziale all'esistenza dell'ufficio: senza lo scambio di favori che essa instaura non sarebbero garantiti i fondi necessari né la protezione politica necessaria per continuare a svolgere la funzione Y.
Le due funzioni concorrenti Y e Z danno vita ad una complessa dinamica: nello stesso spazio coesistono impiegati selezionati per la loro capacità di fare fronte al lavoro dell'ufficio e impiegati raccomandati la cui capacità è irrilevante ai fini dell'assunzione, e dunque in un numero non trascurabile di casi inadeguata. Ignorando la questione morale - ci interessa qui non la condanna ad esempio del nepotismo, ma l'analisi dei suoi effetti concreti sulle pratiche - consideriamo un attimo come una certa ridondanza delle pratiche sia necessaria a far fronte alla realtà di lavoratori inetti: gli inetti vanno assegnati a compiti inutili, oppure attentamente sorvegliati perché non sbaglino. Per loro vanno costituiti uffici e ruoli appositi, stando attenti a che nessuno di questi uffici o ruoli vada a compromettere definitivamente il funzionamento dell'ufficio. Essendo la funzione Z dell'ufficio contemporaneamente nota a tutti ma di necessità implicita (dal momento che esplicitarla equivale a denunciarla, ledendone così il funzionamento), tali uffici e ruoli devono essere giustapposti agli altri uffici e ruoli in modo mimetico: non deve essere possibile dall'esterno distinguere a colpo d'occhio l'ufficio inutile da quello utile, l'impiegato essenziale dall'inetto, perché tale possibilità metterebbe costantemente a rischio l'ufficio.
La burocrazia italiana rappresenta una risposta geniale a tale contraddizione: ridondanze diffuse e procedure bizantine fanno spazio, anche nella più semplice delle operazioni burocratiche, al lavoro almeno nominale di dozzine di persone, ordinate secondo uno schema di supervisioni e controlli incrociati che permette l'attribuzione di responsabilità per ciascun errore virtualmente a chiunque, e praticamente a nessuno.
Tale strategia, che non è l'effetto del caso ma risponde a necessità concrete, provoca tuttavia alcuni effetti collaterali notevoli. In primo luogo, il lavoro di ufficio – per chi lo svolge effettivamente – diventa assai più complicato. Gli impiegati effettivamente competenti si trovano non solo a svolgere da soli un lavoro nominalmente distribuito, ma a svolgerlo ostacolati ad ogni passo da un'organizzazione labirintica che ha precisamente lo scopo di mistificare chi fa effettivamente cosa, e che li rende oggetto – loro come gli altri – della critica diffusa secondo cui ad esempio “gli statali non fanno nulla”. Il successo dell'organizzazione dell'ufficio secondo tali principi è per loro infinita fonte di frustrazione.
La complessità che la contraddizione burocratica genera, tuttavia, ha anche un secondo effetto collaterale: ad un certo punto né gli utenti né gli amministratori sanno più chi fa cosa. Solo alcuni impiegati dentro l'ufficio conservano la consapevolezza della struttura complessiva, sanno distinguere la realtà concreta dalla mistificazione necessaria. A loro tutti si rivolgono: i colleghi inetti per avere aiuto, quando li si chiama a svolgere effettivamente il loro lavoro, i colleghi competenti quando la complessità sopravvenuta delle pratiche li esaspera e non sanno come superarla da soli, i clienti un po' smaliziati e gli amministratori quando hanno bisogno di una consulenza efficace. In generale, questa terza specie di impiegati si presta ad aiutare tutti costoro, ma sempre nella forma di un favore personale. Così facendo, sfruttano l'inefficienza complessiva ed irrimediabile dell'ufficio a proprio vantaggio: reclamando i favori prestati, costoro finiscono per liberarsi completamente della necessità di lavorare, che scaricano volentieri su altri, e spesso anche per fare carriera. Sono, fra gli impiegati dell'ufficio, quelli più benvoluti dal pubblico, più disponibili a fare due chiacchiere e più stimati dai superiori.
A Sven che non capisce nulla di tutto ciò, può apparire strano e diabolico un ufficio nel quale l'esecuzione di una operazione banale richiede dozzine di certificati, documenti e timbri, o un ufficio nel quale il modo migliore di procedere è conquistarsi il favore di un impiegato smaliziato, o ancora un ufficio nel quale chi effettivamente lavora è meno gratificato e tutelato di chi non lo fa. Ma stando alla nostra ricostruzione, tutte queste caratteristiche non sono né strane né accidentali, ma anzi perfettamente razionali: a nostra insaputa, e all'ombra di un discorso pubblico che si scaglia ad ogni passo contro l'eccessiva complessità, dichiarando la necessità di semplificazione, di efficienza e di informatizzazione, l'ufficio X si è evoluto quasi-naturalmente intorno ad un’aporia, sviluppando sottilmente la sua ecologia in risposta alle condizioni ambientali.
Sa com'è, in Italia.
di Lorenzo Palombini