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Liberalismi eretici. La “civile filosofia” dei liberali italiani
(V, n. 8, marzo 2018)
A cura di Giovanni Leghissa e Alberto Giustiniano
Da qualche tempo alcuni autori italiani attivi nel campo disciplinare della filosofia stanno conoscendo una notevole fortuna all’estero, in special modo nell’area anglosassone. Si è così potuto parlare, addirittura, di una Italian Theory, da affiancare alla French Theory quale risorsa da mobilitare in vista della costruzione di un discorso critico sul presente. Per contro, risulta del tutto caduta nell’oblio, sia in patria che all’estero, una tradizione di pensiero legata al liberalismo la quale, in maniera forse ancor più marcata rispetto all’Italian Theory, ha sempre posto al centro del proprio discorso la necessità di riflettere sul senso della vita associata, sui fondamenti del buon governo, sulla legittimità del potere, sul nesso che lega libertà e giustizia, su ciò che funge da presupposto alla realizzazione di una vita democratica pienamente intesa.
In generale, si potrebbe dire che sin dalle proprie origini il discorso filosofico in Italia - potremmo, volendo, far cominciare questa storia con il De monarchia dantesco - ha legato le proprie sorti a una riflessione sul politico, e quasi sempre ciò è avvenuto a partire dalla necessità di indagare problemi concreti, strettamente intrecciati alla vita civile e politica della penisola o dei singoli stati che ne costellavano il territorio. Tuttavia, qui si vorrebbe porre l’accento su una peculiare linea di pensiero che, partendo dall’Ottocento, giunge sino alla prima metà del Novecento per poi in qualche modo insabbiarsi, lasciando il campo a dibattiti di tutt’altro genere, che sembrano non poter (o non voler) nemmeno comunicare con essa. Insomma, si tratta di una tradizione che pare non abbia lasciato eredi. I nomi di riferimento potrebbero essere i seguenti: Melchiorre Gioia, Gian Domenico Romagnosi, Carlo Cattaneo, Pietro Gobetti, i fratelli Rosselli, Gaetano Salvemini, Luigi Einaudi, Emilio Lussu, Ernesto Rossi, Bruno Leoni, Guido Calogero, arrivando fino a Norberto Bobbio. Dai nomi appena evocati, risulta chiaro che parlare qui di “tradizione” forse può apparire come una forzatura sul piano storiografico. Di fatto, però, è innegabile come sia riscontrabile la presenza di un legame che permette di accostare tra loro questi autori e di nominarli assieme - fino a formare una sorta di sequenza ideale. Qui di seguito, proviamo a formulare ciò che potrebbe costituire un provvisorio elenco degli elementi portanti del complesso di idee che li accomuna.
Impegno teorico a favore di una “civile filosofia” (l’espressione è del Romagnosi) che sappia interagire con i problemi concreti posti dall’arte di governo. Necessità di partire da un’antropologia di tipo realistico, svincolata dall’eccessivo ottimismo di matrice illuminista, ma nel contempo erede di esso. Tutto ciò vuol dire sia fiducia nell’educabilità degli umani, che si spera possano diventare cittadini responsabili e partecipi, sia consapevolezza del peso che hanno i pregiudizi, l’ignoranza, le conseguenze del malgoverno, assieme a quelle forme di propaganda che diffondono atteggiamenti e concezioni populiste, reazionarie, antidemocratiche. A questo aspetto si collega il tratto che forse davvero accomuna tutti gli autori sopra menzionati: la volontà, cioè, di articolare un discorso teorico mai astratto, mai votato all’edificazione di sistemi di pensiero, ma sempre aderente alla contingenza della fase storica in cui si trova a operare il soggetto chiamato a dar conto degli effetti che la propria teoria può eventualmente produrre. Ed è, questo tratto, ciò che nel contempo permette di convocare sulla scena il termine liberalismo. Si tratta di un liberalismo che potremmo definire “eretico”, se si considera il fatto che esso ha potuto, a un certo punto, dar vita a quello strano ossimoro che è il “liberalsocialismo”; ma è liberalismo autentico in virtù dell’insistenza sulla libertà individuale quale valore fondante della vita associata, una libertà che si riconosce indissolubile dalla giustizia e dalla necessità di porre al centro sia dell’agenda politica, sia dell’agenda teorica che su quella riflette, il problema dell’ineguaglianza sociale e della disparità nell’accesso alle risorse.
In relazione a tale peculiarità della tradizione liberale italiana che vorremmo individuare - e, forse, contribuire a “costruire” più che ricostruire storiograficamente, in un modo che non intende essere troppo artificioso - resta infine da chiedersi in che misura il pensiero di questi autori può essere considerato attuale. Certo, a prima vista questa sembra una domanda del tutto illegittima: legato alla contingenza di lotte politiche che non sono più le nostre, il pensiero degli autori sopra menzionati sembra offrirsi al nostro sguardo solo più come oggetto di studio rilevante in sede di storia della filosofia – o di storia del pensiero politico. Tuttavia, se consideriamo il dibattito filosofico contemporaneo, il quale sembra oscillare da un lato in direzione di questioni rilevanti solo sul piano gnoseologico e ontologico, dall’altro in direzione di una mescolanza di temi foucaultiani e temi di ascendenza marxista al fine di produrre un discorso critico la cui radicalità, a volte, è però solo retorica ed è inficiata da una notevole mancanza di rigore teoretico, ecco che dalla tradizione del liberalismo italiano ricaviamo forse delle lezioni ancora utili per definire la cornice critica entro la quale ripensare gli snodi problematici del presente.
Queste dunque le questioni a cui vorremmo che il fascicolo di “Philosophy Kitchen” tentasse di fornire un’articolazione:
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rapporto tra democrazia, liberalismo e socialismo; rapporto tra economia di mercato, democrazia sociale e libertà fondamentali; più in generale, rapporto tra sfera dell’economico e sfera del politico (elemento, questo, di grande attualità, se si tiene conto che il regime neoliberale, dominante ormai da decenni su scala globale, funziona proprio in virtù dell’impossibilità di distinguere tra la sfera economica e quella politica);
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come pensare oggi la questione della cittadinanza alla luce della tradizione liberale italiana, all’interno della quale è sempre stato chiaro che la cittadinanza non coincide con l’avere un passaporto, ma è il diritto di avere parte attiva sia nel mercato sia nel processo politico;
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indagine degli aspetti libertari presenti nella tradizione liberale italiana;
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liberalismo come fondazione etica della politica e della vita associata;
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quali soggetti in vista della trasformazione? che senso avrebbe oggi, parlare di una “rivoluzione liberale”?
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che ruolo ha giocato la filosofia di Croce in vista della definizione della tradizione liberale italiana del Novecento? e quale tensione ha potuto crearsi tra i liberali e i teorici dell’elitismo?
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è possibile rinvenire incroci tra la tradizione liberale italiana e altre tradizioni di pensiero, in particolare quella anglosassone, sia dal punto di vista storico che dal punto di vista teoretico-sistematico? (gli autori stranieri che possiamo evocare sono: Stuart Mill, Russell, Hobson, Hobhouse, Dewey, Robert Dahl, Rawls, Walzer, Habermas e Dahrendorf).
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Heretical Liberalism? The Italian Liberals’ “civil philosophy”
(V, n. 8, mars 2018)
Edited by Giovanni Leghissa e Alberto Giustiniano
Since some time, some Italian authors active in the field of philosophy are becoming successful abroad, especially in the Anglo-Saxon area. You can even talk about an Italian Theory, to work alongside the French Theory as a resource to call to action in view of a critical debate about the present. On the other side, the traditional thinking related to Liberalism seems completely forgotten, both at home and abroad, even if it focused maybe more than the Italian Theory on the need to reflect on the meaning of social life, on the foundations for a good government, on the legitimacy of power, on the nexus that connects freedom and justice, on what works as premise for a democratic life fully intended.
In general, it may be stated that since its own origins, the philosophic debate in Italy – and we could recognize its beginning in Dante’s De monarchia – tied its own fortune to the political reflection, and most of the time this happened starting from the need to investigate tangible problems, strictly intertwined to the civil and political life of the peninsula or the single states spread on its territory. However, here we would like to stress a peculiar way of thinking that, starting from the XIX century, reaches the first half of the XX century to be then buried in some way, leaving room for completely different kinds of debates, that don’t seem to be able (or to want) to communicate with the previous one. In conclusion, it’s a tradition that doesn’t seem having left successors. The related names could be the following ones: Melchiorre Gioia, Gian Domenico Romagnosi, Carlo Cattaneo, Pietro Gobetti, the Rosselli brothers, Gaetano Salvemini, Luigi Einaudi, Emilio Lussu, Ernesto Rossi, Guido Calogero, until Norberto Bobbio. From this list of names, it seems clear that talking about “tradition” may appear as a forcing on the historiographical level. Actually, it is undeniable the presence of a bond that allows to put together these authors and mentioning them together – until creating a sort of ideal sequence. Here below we are going to try formulating what could constitute a provisional list of the essential elements belonging to the complex set of ideas that brings them together.
Theoretical commitment in favor of a “civil philosophy” (an expression by Romagnosi) that could interact with the tangible problems originated from the art of government. Need to start from a realistic kind of anthropology, free from the excessive Enlightenment’s optimism, but at the same time its successor. All of this means both trust in the educability of humans, that hopefully can become responsible and active citizens, and awareness of the weight of prejudice, ignorance, misgovernment’s consequences, together with those forms of propaganda spreading populist, reactionary and undemocratic attitudes or ideas. To this aspect it is connected the feature that actually associates all the authors mentioned above: the will to articulate a theoretical debate that is not abstract, or aiming at building systems of thinking, but it is always pertinent to the historical phase in which operated the subject called to answer the effects that his/her own theory may produce. And at the same time, this feature is what allows to bring the term “Liberalism” into play.
It is a Liberalism that we could define “heretical”, if we consider the fact that at a certain point it created that weird oxymoron that is “Liberal socialism”; but it is an authentic Liberalism by virtue of the insistence on the individual freedom as fundamental value of social life, a freedom that is recognized as indissoluble from justice and from the need to put the issue related to social inequality and disparity to access the resources at the center of the political agenda, as well as of the theoretical one that reflects on the former one.
With relation to such peculiarity of the Italian Liberal tradition that we would like to identify – and, maybe, contribute in “building” rather than reconstructing historiographically, in a way that doesn’t want to be too artificial – the question remains to what extent these authors’ thinking can be considered contemporary. Certainly, at first sight this question seems completely illegitimate: related to the contingency of outdated political battles, the way of thinking of such authors seems to appear just as object of study relevant for the history of philosophy – or history of political thinking. Nevertheless, if we take into consideration the contemporary philosophical debate, that seems to swing from one side toward questions that are relevant just on the gnoseological and ontological levels, and from the other one toward a mixture of Foucauldian and neo-Marxist themes to produce a critical discussion whose radicalism is sometimes just rhetorical and nullified by a significant lack of theoretical rigor, this is when from the tradition of the Italian Liberalism we might obtain some lessons still useful to define the critical framework where the present’s complicated junctions can be rethought.
Therefore, these are the matters we would like to articulate in “Philosophy Kitchen”:
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Relationship among democracy, liberalism and socialism; relationship among market economy, social democracy and fundamental freedom; more in general, relationship between the economic and political spheres (extremely contemporary element, if we consider that the neo-liberal regimen, dominating since decades globally, works exactly in virtue of the impossibility to distinguish the economic and political spheres);
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How to think today the matter of citizenship in the light of the Italian Liberal tradition, that always made it clear that citizenship doesn’t correspond to the possession of a passport, on the contrary it is the right to participate actively in both the market and the political process;
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Investigation of the libertarian aspects present in the Italian Liberal tradition;
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Liberalism as ethic foundation of politics and social life;
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Which subjects in view of the transformation? What would be, today, the sense of talking about a “liberal revolution”? Which role played Croce’s philosophy in view of the definition of the Italian Liberal tradition of the XX century? And what kind of tension was created between the liberals and the theorists of elitism? Is it possible to identify intersections between the Italian Liberal tradition and other traditions, in particular the Anglo-Saxon one, both from the historical and the theoretical-systematical points of view? (foreign authors that we can invoke are: Stuart Mill, Russell, Hobson, Hobhouse, Dewey, Robert Dahl, Rawls, Walzer, Habermas e Dahrendorf)
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Mariana Mazzucato – Lo stato innovatore
Recensioni / Aprile 2016Con il libro Lo Stato Innovatore (Laterza, 2014) Mariana Mazzucato ha rotto il silenzio che pervadeva nell’accademia e tra l’opinione pubblica europea circa il ruolo dello Stato in una moderna economia di libero mercato. Il libro ha avuto un’ampia diffusione, soprattutto in Italia e nel Regno Unito, dove Mazzucato insegna Economia dell’innovazione. Se ne è molto dibattuto, perché la tesi centrale dell’autrice è in radicale opposizione sia con le teorie economiche correnti sia con l’atteggiamento della politica europea degli ultimi trent’anni: secondo l’autrice lo Stato dovrebbe intervenire di più e meglio nel sistema economico. Esperta di innovazione tecnologica e del rapporto di quest’ultima con la crescita economica e il tessuto produttivo, Mazzucato sostiene due posizioni fondamentali: la prima è che il contributo attivo dello Stato nel creare innovazione tecnologica è largamente sottostimato e taciuto; la seconda è che il settore privato non è in grado di produrre da solo l’innovazione necessaria per garantire crescita economica e risposte ai più urgenti problemi globali (in primis la crisi ambientale).
Mazzucato ha un curriculum di eccezione da economista eterodossa. Ha ottenuto il dottorato alla New School for Social Research, prestigiosa università americana considerata fra le più progressiste d’oltreoceano. Effettivamente i riferimenti teorici del libro sono esplicitamente eterodossi: John Maynard Keynes, Joseph Schumpeter, Karl Paul Polanyi e Hyman Minsky sono tra i nomi che l’autrice evoca per fondare le argomentazioni di policy del libro su solide basi teoriche. L’argomento più convincente in favore del necessario intervento statale per promuovere e realizzare l’innovazione scientifica e tecnologica sarebbe la differenza tra i concetti di rischio e di incertezza, sottolineata dall’economista americano Frank Hyneman Knight negli anni Venti del secolo scorso. Il primo caratterizza la condizione di indeterminatezza rispetto a una serie di eventi che potrebbero verificarsi. Prendiamo per esempio il classico lancio della monetina. Non si può sapere prima del lancio quale sarà il risultato, ma si può calcolare con precisione la distribuzione probabilistica dei due eventi possibili. Da ciò risulta che il rischio è quantificabile e in effetti i moderni mercati finanziari si basano sostanzialmente sulla misurazione del rischio e della sua “commodificazione” sotto forma di assicurazioni, contratti derivati e altri tipi di strumenti economici. L’incertezza invece è la completa incapacità di prevedere un evento futuro, proprio come nel caso di uno scienziato che conduce un esperimento per scoprire una nuova tecnologia. Secondo Mazzucato l’innovazione si basa sul concetto di incertezza ed è per questo che il settore privato – aziende e venture capitalist, cioè quegli investitori specializzati nel finanziare progetti innovativi e altamente rischiosi – dimostra di non avere gli incentivi giusti e quel “capitale paziente” che permetterebbe all’innovazione di fiorire.
Secondo l’autrice le più grandi multinazionali rispondono alla deregolamentazione dei mercati finanziari reinvestendo i loro profitti nel riacquisto delle proprie azioni anziché promuovere il comparto di ricerca e sviluppo (R&S) o proporre progetti innovativi. I fondi di venture capital invece guadagnano dalla
vendita di quote di società altamente innovative sui mercati azionari, il loro scopo non è certamente attendere di rientrare dell’investimento attraverso il normale flusso di ricavi che il nuovo prodotto garantirebbe. L’orizzonte temporale dei fondi di venture capital non supera i cinque anni, un problema fondamentale se si considera che possono essere necessari anche diversi decenni per commercializzare i risultati di ricerche scientifiche innovative. Per far entrare lo Stato sulla scena, Mazzucato sfata un mito resistente nella teoria economica: il concetto di fallimento del mercato. Questo non rappresenta né l’unica né la più importante ragione del perché lo Stato debba farsi protagonista attivo dei complessi processi dell’innovazione. La teoria sostiene che il mercato dovrebbe essere lasciato libero di autoregolarsi tranne in casi eccezionali, nei quali l’ammontare del bene fornito dal mercato è inferiore all’ammontare ottimale (da qui il fallimento). Per quanto riguarda l’innovazione, però, lo Stato è l’unica istituzione in grado di assumere l’incertezza e di guidare i processi innovativi con un mix di politiche e investimenti mirati. Quel che è chiaro è che lo Stato non dovrebbe semplicemente limitarsi a creare le condizioni migliori affinché siano i privati a condurre i processi di innovazione tecnologica e industriale, ma dovrebbe invece svolgere un attivo ruolo di coordinamento, di finanziamento e di promozione attraverso agenzie pubbliche, centri di ricerca e partnership con il settore privato.
Nei capitoli centrali del libro, Mazzucato passa in rassegna numerosi esempi storici che dimostrano il ruolo attivo dello Stato nei processi di innovazione. Il suo caso studio più eclatante sono gli Stati Uniti. Qui, molti dei programmi pubblici che finanziarono ricerca di base e applicata nei settori delle biotecnologie e dei farmaci furono approvati dall’amministrazione conservatrice di Ronald Reagan negli anni Ottanta. A tal proposito l’autrice ricorda l’apparente conflitto tra i sostenitori delle politiche interventiste di Alexander Hamilton (1755-1804) e quelli delle politiche del laissez-faire di Thomas Jefferson (1743-1826). Negli Stati Uniti, la posizione ufficiale è sempre stata jeffersoniana mentre la politica economica – adottata silenziosamente – decisamente hamiltoniana. Già nel 1958 il governo creò un ufficio governativo all’avanguardia nella promozione dello sviluppo tecnologico per la difesa nazionale (Darpa). Le caratteristiche del Darpa erano: autonomia dal governo, ingenti finanziamenti e capacità di attrarre le menti più brillanti del paese. Senza il Darpa alcune tra le più importanti innovazioni in campo informatico (per esempio internet) non sarebbero state possibili.
Per spiegare il ruolo decisivo avuto dallo Stato nel potenziare innovazione tecnologica e permettere lo sviluppo di nuovi prodotti, Mazzucato dedica un intero capitolo ad Apple, l’azienda del popolarissimo Steve Jobs. Creata in un garage con pochissimi mezzi e tanto spirito imprenditoriale, Apple rappresenta nell’immaginario comune l’impresa di successo che ha rivoluzionato i mercati con prodotti tecnologicamente all’avanguardia. Peccato che, secondo Mazzucato, Jobs e compagni non sarebbero andati da nessuna parte senza le invenzioni finanziate dal governo americano. Internet, GPS, schermi tattili e le più moderne tecnologie di comunicazione sono state tutte inventate grazie allo Stato e poi utilizzate da Apple. Il segreto del successo dell’azienda di Cupertino starebbe nella capacità di integrare innovazione preesistenti e nella cura del rapporto utente-supporto informatico.
In sostanza la tesi di Mazzucato è che lo Stato debba essere considerato un partner del settore privato nei processi di innovazione tecnologica e non un semplice facilitatore. Al contrario del privato, lo Stato può assumere l’incertezza e coordinare i processi virtuosi che portano le economie capitaliste a crescere. L’autrice condanna le recenti tendenze delle grandi imprese farmaceutiche e high-tech alla socializzazione del rischio – cioè lo sfruttamento della ricerca finanziata dallo Stato – per poi privatizzare i profitti, non remunerando adeguatamente i lavoratori o cercando di eludere il fisco. La ricetta di Mazzucato è riassumibile in un concetto espresso nella parte finale del libro: «quando la distribuzione dei proventi finanziari del processo di innovazione riflette la distribuzione dei contributi al processo stesso, allora l’innovazione tende a ridurre la diseguaglianza». Questa è però anche la debolezza della tesi esposta nel libro: manca un’analisi approfondita delle complesse dinamiche economiche che caratterizzano le moderne economie globali. Un ruolo diverso dello Stato nei processi di innovazione sarebbe il grimaldello per invertire la tendenziale stagnazione delle economie occidentali e per risolvere il problema della riconversione industriale. Troppi elementi vengono ricondotti all’interno del discorso dell’economia dell’innovazione; per esempio il problema delle diseguaglianze crescenti difficilmente può essere affrontato entro tale cornice teorica.
Infine sembra mancare un’indagine dei processi politici che guidano lo Stato. Chi è lo Stato innovatore e come si forma? Quali sono gli incentivi necessari per mettere in moto i virtuosi meccanismi dell’innovazione coordinati dallo Stato? Su questo punto il testo di Mazzucato è deficitario, cosa che, tra l’altro, rende il suo punto di vista facilmente attaccabile: chiedere più Stato affidandosi vagamente a una leadership più forte o a una capacità di visione maggiore rischia di produrre solamente corruzione e sprechi.
di Alberto Fierro
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«L’economia politica globale dei nostri giorni ci pone di fronte a un nuovo, allarmante problema: l’emergere della logica dell’espulsione» (p. 7). Con questa frase emblematica Saskia Sassen, sociologa alla Columbia University in The City of New York, inizia il suo testo Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale, edito per il Mulino lo scorso marzo. Il testo è interamente dedicato a difendere un’ipotesi innovativa e feconda, e cioè il fatto che i cambiamenti sociali degli ultimi decenni possano essere compresi attraverso il concetto di espulsione di alcuni individui dal lavoro, dallo spazio – sia sociale che geografico – e dai diritti. L’idea di base è che la crescita economica degli anni Novanta abbia avuto luogo in un contesto in cui era più conveniente espellere (o, come comunemente si dice, escludere) qualcuno da qualcosa piuttosto che includerlo: senza questa esclusione, sostiene l’autrice, la crescita economica non sarebbe stata possibile. Sassen sostiene che l’esclusione consista nell’allontanare gli individui dal proprio spazio vitale e che le principali cause di questo fenomeno siano la finanziarizzazione dell’economia e la concentrazione della gran parte delle ricchezze nelle mani di alcuni gruppi sociali. Stando alle riflessioni dell’autrice, tali fattori generano disuguaglianza, la quale a sua volta si configura come il presupposto dell’esclusione: quanto più è elevato il livello di disuguaglianza all’interno di una società, tanto più pervasive sono le conseguenze dell’esclusione. Tuttavia, al contrario di ciò che a questo punto si potrebbe pensare, la sociologa sottolinea in più punti dell’opera che la disuguaglianza, intesa come condizione di possibilità dell’esclusione, non deve essere considerata un effetto collaterale del modello economico fondato sulla finanziarizzazione e sulla concentrazione di ricchezze, bensì uno strumento di cui, a partire dagli anni Ottanta, il sistema economico si serve. Infatti per Sassen gli spazi, siano essi geografici o sociali, sono delimitati da chi ha il potere di farlo, e chi è provvisto di questo potere, in base alle proprie necessità, traccia confini che stabiliscano chi è “dentro” e chi è “fuori” in un dato momento storico.
I quattro capitoli che compongono il testo affrontano tre temi fondamentali: il rapporto dell’individuo con lo spazio fisico, quello dell’individuo con l’economia e la relazione che intercorre tra queste due dimensioni. L’autrice sostiene che l’espulsione non consiste soltanto o semplicemente nell’impossibilità di partecipare alla vita sociale ed economica di uno Stato, ossia un’«espulsione […] dai progetti di vita, dall’accesso ai mezzi di sussistenza, dal contratto sociale» (p. 37), ma essa è anche fisica, ovvero un’esclusione spaziale definita da confini geografici precisi; di conseguenza si può dire che l’esclusione da uno spazio fisico implichi spesso l’esclusione da uno spazio sociale e viceversa. In altre parole, l’analisi di Sassen suggerisce che lo spazio fisico è direttamente interconnesso allo spazio sociale dato che le persone sono sempre più spesso espulse non solo da alcuni spazi sociali per motivi geografici, ma anche da certi territori per motivi sociali (basti pensare al fenomeno della migrazione e a quello della disoccupazione). Sassen dunque dipinge un quadro internazionale impietoso e complesso, confermato da alcune recenti ricerche economiche e sociologiche, sull’analisi dei tassi di disoccupazione, sulla considerazione della distribuzione delle ricchezze e sul numero di persone coinvolte nei flussi migratori.
Il rapporto dell’individuo con l’economia è forse l’aspetto più interessante: quello in cui ci troviamo a vivere è, secondo ciò che l’autrice definisce nel primo capitolo, il periodo del “capitalismo avanzato” (p. 19). Le sue caratteristiche sono molteplici. Per spiegare questo concetto, Sassen introduce una locuzione efficace, quella di “formazioni predatorie”. Con questa locuzione l’autrice intende designare formazioni sociali complesse: «ciò che vediamo emergere non sono tanto élite predatorie quanto “formazioni” predatorie, una combinazione di élite e capacità sistemiche, il cui fondamentale fattore abilitante è la finanza, che spinge il sistema in direzione di una concentrazione sempre più acuta» (p. 20).
Secondo Sassen l’esistenza di queste formazioni predatorie è la causa più profonda dei fenomeni di esclusione precedentemente descritti perché tali formazioni sono sorte allo scopo di consentire soltanto a una piccola parte della popolazione di arricchirsi. Le formazioni predatorie non sono identificabili solo in singole azioni, ma in un sistema di
operazioni compatibili con diversi territori (dagli USA alle cosiddette “Tigri Asiatiche”) che fanno sì che le disparità economiche siano in continua crescita. Dal punto di vista di Sassen la crisi economica del 2008 ha portato alla luce un sistema – la formazione predatoria di cui sopra – che, per essere compreso, non può essere analizzato solo localmente o prendendo in considerazione singoli aspetti di esso, come per esempio fa chi cerca di stabilire i diretti responsabili del modello del capitalismo avanzato e della recente crisi, poiché il fenomeno in questione si inserisce all’interno di un sistema complesso che ha ramificazioni globali. Perciò la prima fondamentale conclusione alla quale giunge Sassen è di natura metodologica: non è possibile capire ed eventualmente risolvere un problema generale se ci si ostina a pensare soltanto a dettagli particolari. C’è però un altro tema altrettanto importante all’interno del testo, quello della relazione tra spazio fisico e individuo: la locuzione ‘refugees werhousing’ (l’internamento di rifugiati), coniata dalle organizzazioni per i diritti umani, per esempio, può aiutare a comprendere meglio la condizione di chi, seppur appartenente a un flusso di persone che si spostano da un Paese a un altro, si trova proprio in virtù di ciò privato della libertà di movimento per lungo tempo e costretto a un’inattività forzata in accampamenti o in simili strutture di accoglienza o segregazione. Altra questione simile trattata dall’autrice è il problema dell’incarcerazione: tradizionalmente legata ai regimi dittatoriali, essa sta emergendo, secondo Sassen, come strumento di espulsione fisica in diversi territori democratici.
Diversi anni dopo La città nell’economia globale (il Mulino, Bologna 2010), la sociologa è tornata a scrivere un testo chiave per la comprensione dello stato di cose presente, attraverso la medesima interpretazione sotto il profilo globale dei sistemi esistenti. Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale permette di costruire un complesso quadro della situazione odierna, soprattutto dei paesi comunemente considerati sviluppati, utile per essere a sua volta composto e ricomposto in diversi modi, a seconda del punto di vista da cui lo si guardi. Dal mio punto di vista disgregare e riassemblare le analisi sul tema è probabilmente il modo migliore di utilizzare il testo di Sassen.
di Camilla Cupelli
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Quando Karl Marx si interrogò sul ruolo che la legge occupava nelle dinamiche della società moderna, scelse di risolverlo, come ben noto, negandole qualsiasi specifica autonomia: il diritto – come d’altronde la religione, la filosofia e la politica – non sarebbero nient’altro che il riflesso passivo, ossia una sovrastruttura, di quella concreta base economica che ben più attivamente si agita nel cuore della società. L’antica tradizione ebraica, di certo non sconosciuta allo stesso Marx, insegnava invece che la legge è stata data agli uomini perché questi la custodissero e la salvaguardassero dall’oblio, rendendo così tanto il Testo quanto la Voce dei suoi interpreti il suo sigillo imperituro. Chiunque osservi il funzionamento della società attuale, delle sue regole e dei suoi vincoli, dei suoi flussi e dei suoi varchi, può domandarsi se queste note affermazioni mantengano ancora qualcosa delle proprie antiche verità. Nella recente pubblicazione di Pier Giuseppe Monateri tali stringenti interrogativi si uniscono a un’analisi inedita e originale, in cui attraverso un approccio comparatistico si indaga sull’origine del fenomeno giuridico nella tradizione Occidentale e sugli effetti che le memorie normative suscitano negli attuali processi economici e produttivi.
Innegabilmente, vi fu un tempo nella storia del pensiero giuridico in cui la riflessione sulla norma non era soltanto oggetto di un pensiero tecnicistico o economicistico, ma al contrario interrogazione profonda sui meccanismi che governavano l’umano, il divino e lo spazio politico. Nel nuovo ordine mondiale, tuttavia, sembra che la scienza giuridica stia attraversando un processo di inesorabile declino, un lento tramonto che si acuisce vieppiù a causa della crescente predominanza di discipline “altre”, quali l’economia e la finanza, che nella loro costante rincorsa verso un nuovo paradigma di pensiero paiono sbarazzarsi con fermezza di qualsiasi scrupolo culturale.
Pier Giuseppe Monateri affronta criticamente la perdita di considerazione del fenomeno
giuridico, compiendo una nuova e accurata riflessione genealogica sul medesimo, la quale si dimostra – proprio alla luce dell’attuale contesto neoliberista – emblematicamente necessaria. La tesi principale sostenuta dall’Autore è che in un mondo tendente ovunque all’uniformità politica ed economica, la legge persiste a differenziare e a contrassegnare i diversi corpi politici, formalizzandosi in un elemento di caratterizzazione che se a prima vista appare assente o mancante, si rivela in realtà quale matrice storica delle istituzioni occidentali. La legge, così prosegue l’Autore, possiede una riserva di senso più profonda della politica stessa e la prova di ciò consiste nel fatto che se nell’attuale crisi globale la sovranità appare disperdersi e la politica neutralizzarsi, proprio il fenomeno normativo mantiene al contrario la propria incatturabile identità, che si dispiega così nei luoghi, negli stili e nelle forme politiche dell’Occidente.
Sintetizzando brevemente l’ampia analisi sviluppata nel testo, è oramai constatazione abituale suddividere i sistemi giuridici mondiali in due distinte famiglie: da un lato la tradizione giuridica di common law, diffusa soprattutto nei paesi anglosassoni, dall’altro quella di civil law, tipica al contrario della tradizione giuridica continentale di scuola romanista (Francia, Germania, Italia, Spagna).
Tale suddivisione – se interpretata nella particolare ottica efficientistica propugnata dal sistema WTO-FMI-Banca Mondiale – diviene immediatamente un fattore problematico. L’armonia potenzialmente “irenica” di una sola regola juris, paradiso in terra per la massimizzazione delle transazioni commerciali, è infatti bruscamente osteggiata proprio dalla persistenza di diverse culture giuridiche, di differenti (e antitetici) modi di statuizione delle regole, e – cosa che maggiormente interessa – di diversi linguaggi normativi nell’amministrazione della giustizia. Nei Diktat degli organismi internazionali, tuttavia, il diritto non può permettersi di essere vario: esso deve farsi uniforme.
Fu così, come illustra Pier Giuseppe Monateri, che si diede avvio a un’aspra lotta culturale, tutt’oggi in pieno svolgimento, testimoniata da alcuni rapporti emessi dalla Banca Mondiale nel 2004 e nel 2005. Tali report sancirono definitivamente l’inefficienza dei sistemi giuridici di origine romanista rispetto agli opposti modelli giuridici di common law, in ciò coadiuvati anche da quel movimento internazionalmente noto come Law and Finance, a sua volta propugnatore della diffusione del tipo anglosassone a discapito di quelli “rivali”.
Chiaramente, proprio sul punto della pretesa superiorità di una tradizione rispetto a un’altra tali correnti di pensiero mostrano vistosamente la più chiara debolezza. Ciò non soltanto in un’ottica – come si diceva – culturale, ma prim’ancora in una di tipo storico-narrativo.
Il percorso logico che Pier Giuseppe Monateri individua si giova, così, tanto della riflessione politica classica quanto di uno spiccato approccio letterario, teso alla critica delle procedura di sponsorizzazione delle regole giuridiche. Se infatti la globalizzazione ha come fine il dissolvimento puro e totale dei corpi politici con il preciso obiettivo di realizzare uno spazio politico liscio, privo di resistenze e dagli effetti sconfinati, occorre, come necessaria forma di critica, evidenziare proprio quelle differenze, quelle singolarità e quegli scarti che persistono nell’esistenza attuale di ciascuna tradizione normativa. Ciò diviene tanto più essenziale se si considera l’importanza di una decostruzione delle rappresentazioni offerte dalla Banca Mondiale, dal FMI e dal WTO, che sulla base di indagini genealogiche finalisticamente orientate operano per imporre un solo linguaggio globale.
Come sottolinea Pier Giuseppe Monateri, da questo passaggio emerge in realtà la vera “ragione” del contendere: essa non risulta più semplicemente la questione di quale tipo di regola giuridica da utilizzare, o di quale sistema di giustizia imbastire. La vera questione diviene quella sulla natura duale o unitaria dell’Occidente, ossia sul problema dell’esistenza o meno di due diversi modelli di società (come si ricordava, quello di civil law e quello di common law), e quindi anche di quale dei due rendere concretamente operativo su scala internazionale. Proprio attraverso questo varco, l’indagine dell’Autore da giuridica si fa geopolitica e ha il pregio di sviluppare una ricostruzione spaziale dei meccanismi di origine del politico tanto in Europa, quanto nel continente americano.
Certo, nella suesposta presa di posizione del WTO, ciò che emerge è la polemica concreta verso ogni forma di socialismo e di sovranità statale, oramai ampiamente messa in scena attraverso innumerevoli strategie. Secondo questa vulgata, il diritto continentale (in primis quello francese e quello dei suoi più stretti imitatori europei) viene considerato storicamente statalista, pertanto inadatto a garantire le flessibilità normative spesso richieste dai grandi investitori globali. Inoltre, la burocratizzazione della magistratura continentale – considerata completamente sottomessa agli ordini dello stato centrale –garantisce ancora diritti e privilegi che si oppongono strutturalmente all’operare dei mercati finanziari. Tuttavia, ciò che in realtà tali organismi sovranazionali mirano ad attaccare è proprio il politico nelle sue forme di manifestazione istituzionali; un attacco che viene condotto, per di più, attraverso la pretesa ricostruzione storica delle origini della legge.
In questo senso, diviene dunque fondamentale condurre un nuovo tipo di esame che si giovi anche degli strumenti della critica letteraria, della filosofia politica e della storia delle tradizioni giuridiche. In accordo con ciò, la nozione che nel saggio viene precisamente individuata è quella, giuridico-letteraria, di “stile” della tradizione. Lo stile, secondo la ricostruzione di Pier Giuseppe Monateri, non attiene ai fronzoli della scrittura, o alla sua composizione manieristica. Esso non indica nemmeno un semplice giudizio di gusto sulla bellezza o sulla piacevolezza di un determinata scrittura. Lo stile è in realtà una vera e propria ontologia che differenzia ciascun corpo politico nella sua rispettiva esistenza storica, marcando quindi lo spazio sconfinato neoliberale con precise striature che distinguono, interrompono e oppongono gli stati nazione. I diversi stili della legge e della giustizia sono, così, gli elementi pregnanti per una geopolitica del diritto in cui lo “spazio” diviene quella soglia attraverso cui la legge ottiene una determinata visibilità.
A primo avviso, ciò potrebbe sembrare assai distante dagli scopi del diritto comparato, inteso quale disciplina finalizzata esclusivamente a evidenziare le differenze dei molteplici sistemi giuridici e le rispettive regole operative. Eppure, ogni problema di diritto comparato è anche, in ultima istanza, un problema che investe il politico e la sua identità. Cos’è allora, oggi, il diritto comparato? In Europa, come si accennava, esso è un mezzo per realizzare un diritto unico (esemplarmente, il codice europeo); nell’esperienza statunitense è invece lo strumento che consente di creare ranking tra le diverse tradizioni giuridiche, le quali divengono così dei veri e propri “oggetti” forniti di indici e valori numerici. In breve, attraverso un certo uso della disciplina, si staglia netto il pericolo di una tentazione riduzionistica, che considera il complesso corpus politico e istituzionale di una nazione alla pari di un indice aritmetico incasellato in una classifica, passibile quindi di essere sostituito, cancellato e modificato senza particolari problematiche.
È su questo piano politico-giuridico che insiste, con rigore, l’opera di Pier Giuseppe Monateri. La nuova funzione che egli individua, infatti, è proprio quella del diritto comparato inteso appunto quale disciplina volta allo studio delle differenze e alla comprensione degli spazi nomici. Forse, è proprio attraverso tale passaggio che è possibile rilevare il vero paradosso della classificazione economicistica voluta dai grandi organismi sovranazionali: nonostante la preminenza dei modelli matematici e dei loro calcoli marginali, la legge continua a occupare il centro degli interessi economici odierni. L’idea che domina tali pratiche è che le riforme e il progresso siano possibili, dopotutto, soltanto attraverso riforme giuridiche. In questo senso, è allora il governo della legge, inteso come cattura del mezzo giuridico, a interessare alle grandi organizzazioni, e a spingerle così a scontrarsi e a imbastire narrazioni che mostrano, qualora accuratamente analizzate, il proprio fine affabulatorio. L'importante giurista statunitense Robert Cover scrive nell'articolo intitolato Nomos and Narrative (in “Harvard Law Review”, 97, 1983) che noi abitiamo una legge, un nòmos, e questo nòmos occupa sempre uno spazio specifico, che si volge quindi in spazio giuridicamente organizzato. Se lo spazio è allora quella soglia in cui la legge si rende visibile, tale forma di visibilità ricade proprio nella pratica degli stili in quanto rappresentazioni visibili della legge: il diritto comparato può allora divenire quella disciplina che conferisce un senso globale alla legge, disvelandone in ultima istanza la sua “misteriosa” presenza.
Forse, è proprio in questi termini (come già rilevato da von Hayek) che è possibile abbozzare una conclusione: la legge è molto più ineffabile, molto più sublime e molto più ingovernabile di quello che crediamo. Essa non può divenire oggetto di ranking o di classifiche. Eppure, evitare la tentazione di ridurre il diritto a un oggetto misurabile non significa affatto affermarne l’inesistenza: al contrario, la legge esiste e ci governa molto più di quanto riusciamo noi stessi ad amministrarla. Ciò è tanto più curioso se si considera che spesso, nella tradizione giuridica di common law, i grandi commentatori ripetevano l’adagio per cui il giudice, nell’atto di decidere, “scopre” la legge. Ironicamente, considerare la legge come esistente ben al di là degli oggetti che la presentificano è proprio l’idea di fondo che si oppone al modello della disponibilità assoluta voluta dagli apparati finanziari: un’idea, come si sarà notato, che è tratta da quella stessa cultura giuridica che la Banca Mondiale e il FMI vorrebbero invece imporre al globo intero.
Il merito ultimo del saggio di Pier Giuseppe Monateri è allora quello di illustrare le diverse immagini della legge che continuano, inesorabilmente, a segnare le differenze e gli scarti all’interno dell’attuale spazio globale. Solo con un’effettiva e rinnovata conoscenza di tali meccanismi, uniti a un approccio critico e vigile verso gli stringenti Diktat internazionali, sarà forse possibile smascherare le narrative mendaci e le subliminali pratiche egemoniche del nuovo ordine neoliberale.
di Mauro Balestrieri