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Nelle sei lezioni che compongono Il senso della possibilità, edito a gennaio per Feltrinelli (2018), Salvatore Veca completa una trilogia di saggi ̶ iniziata nel 1997 con Dell’incertezza e continuata nel 2011 con L’idea di incompletezza ̶ che rappresenta uno dei più complessi itinerari teorici del panorama filosofico italiano degli ultimi vent’anni. Nello specifico, in questo terzo volume, Veca si impegna nella difficile impresa di delineare il senso della nozione di possibilità entro il quadro di un’interpretazione filosofica delle modalità che si dimostri in grado di dar conto della connessione tra l’impiego dei termini modali (attuale, possibile, necessario, contingente) e i nostri atteggiamenti proposizionali ordinari del reputare “come stanno le cose” nel mondo che ci circonda. In altre parole, l’autore muovendo da una prospettiva epistemica prova a far luce sui processi che generano le nostre descrizioni e prescrizioni e, in particolar modo, sulle ragioni del loro trasformarsi nel tempo, imputabili in vario modo ai mutamenti nell’ambito delle teorie e delle pratiche (p. 16).
A partire dalle precedenti ricerche sulle nozioni di incertezza e incompletezza, ritenute rispettivamente l’origine della tensione teoretica e il carattere proprio del risultato che ne scaturisce, Veca ci accompagna in un tortuoso itinerario lungo i limiti della pratica filosofica, fino al punto di rottura in cui il necessario diviene contingente e l’inaspettato si manifesta nella forma dello scacco. L’intento però non è soltanto porre l’accento sullo stato di crisi di fiducia o legittimità che investe ciclicamente l’impresa del senso ma di indagarne il ruolo epistemologico. Il ripetersi della crisi, manifestantesi attraverso l’esigenza di impegnarsi in manovre metateoriche, andrebbe interpretato piuttosto come un promemoria antiriduzionistico dovuto a una sorta di inesauribilità propria degli oggetti dell’indagine filosofica. La natura di tali oggetti stimolerebbe l’adozione di una molteplicità di punti di vista in una manovra intellettuale che fa “di necessità virtù” ma che nel contempo rappresenta la possibilità stessa di una relazione conoscitiva con “ciò che c’è”. Si pensi al senso di povertà e angustia che ci assale quando dimostriamo le ragioni irrevocabili di un unico punto di vista rispetto agli enigmi ricorrenti o inaspettati della filosofia, ci ricorda l’autore. Da queste considerazioni preliminari (oggetto della Prima lezione), seguendo una linea che dall’enciclopedia di Husserl porta ai giochi linguistici di Wittgenstein per giungere fino al paradigma della spiegazione di Nozick, Veca torna a chiedersi se «non dovremmo guardare all’attività filosofica come a un ventaglio di stili d’indagine e di scopi e obiettivi di ricerca differenti e alternativi» che, se prendiamo sul serio la storia, ci accorgiamo «persistere quasi nella forma di motivi musicali, nel repertorio o nell’archivio» (pp. 32-33). Ed è proprio qui, all’incrocio tra dimostrazione e spiegazione, che la nozione modale di possibilità diviene elemento cruciale per mettere a fuoco la stretta connessione tra contingenza e verità. Connessione che si manifesta in tre sensi del possibile: 1) reputare qualcosa possibile in senso ampio (epistemico); 2) immaginare e sperimentare mentalmente mondi possibili; 3) pensare se stessi nella durata e dunque nel proprio essere oggetto di trasformazione.
A fornire la struttura portante del saggio è la lunga riflessione rivolta al primo senso del possibile, che si svolge trasversalmente a tutte le sei lezioni ma che diviene protagonista, in particolare, della prima e della quarta. Qui, ripartendo dall’analisi delle categorie e dei giudizi modali svolta da Kant nella Critica della ragione pura, Veca osserva innanzitutto che quando reputiamo possibile, attuale o necessario qualcosa non facciamo riferimento al contenuto proposizionale degli enunciati «quanto piuttosto al tipo di relazione fra l’atteggiamento del soggetto che giudica e l’enunciato corrispondente». Le modalità hanno dunque a che vedere con i nostri atteggiamenti proposizionali, con «la posizione che noi specifichiamo, assegnando epistemicamente modalità alternative agli stessi stati di cose. x è p: possibile, attuale, necessario» (p. 41). Questo genera due problemi per la riflessione kantiana che si rivelano cruciali per l’indagine. In primo luogo, il fatto che le categorie modali risultano distinte nettamente dalle altre categorie in quanto tetiche: esse accompagnano le variazioni del “porre” dando conto del soggetto e non dei modi dell’oggetto. In secondo luogo, diviene centrale la categoria dell’attuale (wirklich) e il giudizio assertorio. Queste assumono un ruolo prioritario poiché chiamano in causa la posizione “in quanto tale” dell’oggetto nello spazio e nel tempo (absolute Setzung) mentre possibilità e necessità di un oggetto indicano soltanto rispettivamente l’accordo con la regola o la posizione secondo una regola. In questo senso l’attuale (nel senso della Wirklichkeit), implicando l’assegnazione di esistenza a qualcosa, «è immerso in un intorno in cui si danno ex ante possibilità e, ex post, necessità» (p. 42). In questo senso, secondo Veca, la priorità dell’attuale così come intesa da Kant indica l’unica via d’accesso per il soggetto al possibile e al necessario e nondimeno implica una gerarchia in cui l’orizzonte di partenza ineludibile è l’esperienza presente. Il problema che tuttavia permane nella prospettiva kantiana è il suo realismo empirico: perché l’esemplificazione esistenziale abbia successo è necessario soddisfare la condizione della percezione nello spazio e nel tempo di un oggetto. Tale componente del sistema kantiano è però inutilmente restrittiva e non tiene conto di una vasta gamma di modi con cui assegniamo esistenza a qualcosa nel nostro linguaggio ordinario. L’autore fa qui riferimento ai recenti sviluppi logici dei temi kantiani elaborati da Hintikka per mostrare come il nostro reputare vero o falso un qualsiasi stato di cose sia implicitamente legato a processi di comparazione tra una serie di stati di cose possibili al fine di classificare quelli che sono compatibili con ciò che viene percepito come stato attuale. Questo significa che quando esploriamo il mondo che ci circonda mettiamo in atto «giochi di ricerca e ritrovamento» sul modello dei giochi linguistici di Wittgenstein che però in questo caso si svolgono tra il ricercatore e la natura. Che qualcosa esista è l’esito riuscito di tale attività che, come sostenuto da Kant, si svolge nell’ambito delle nostre percezioni di oggetti. Gli oggetti nello stato attuale a loro volta vanno intesi come ciò cui possiamo riferirci alla luce dell’esito positivo dei nostri giochi di ricerca e ritrovamento, e fino a prova contraria (pp. 43-44).
È bene precisare che l’idea guida di queste analisi non mira a negare l’importanza degli aspetti aletici o deontici al contrario vuole impegnarsi «a connettere l’impiego dei termini modali ai nostri atteggiamenti ordinari e, in particolare, ai nostri atteggiamenti proposizionali, ai nostri giudizi intuitivi di modalità, al nostro reputare» come stanno le cose in una varietà di domini. Questo significa impegnarsi nell’elaborazione di una versione del realismo che integri l’assunzione realistica elementare, secondo cui esiste un mondo là fuori indipendente da noi, e che tenga conto della rilevanza del fatto che all’attuale è possibile riferirsi in più di un modo. Sostenere infatti che qualcosa c’è non è affatto controverso, più complesso è rispondere alla domanda a proposito di ciò che diciamo che vi è (p. 44). In particolare nella quarta lezione, dal titolo Epistemologia, necessità e realismo, Veca si propone di mostrare come la progressiva trasformazione dell’immagine della scienza ̶ dalla visione statica neopositivista della prima metà del secolo all’interesse per la dinamica dell’impresa scientifica dalla seconda metà in avanti ̶ abbia determinato una profonda revisione, non soltanto della nostra concezione del rapporto tra teoria e realtà, ma anche dell’appropriato significato epistemico da attribuire all’operatore modale di necessità (p. 130). La svolta causata nel Circolo di Vienna dal falsificazionismo di Popper prima e dalle Ricerche filosofiche di Wittgenstein dopo ha messo fuoco la dinamica storica che caratterizza il cambiamento concettuale dell’impresa scientifica, ponendo l’accento sulla sua dimensione pragmatica e in un secondo momento sociologica, chiudendo così i conti con le posizioni concernenti la plausibilità di isomorfismo strutturale fra proposizioni e stati di cose. In termini modali, secondo l’autore, questo ha generato l’esigenza di una riformulazione della nozione di necessità che, con le parole di Nozick, da «necessità incondizionata che resiste a qualsiasi controesempio a un tempo dato, connessa alla verità di qualcosa in tutti i mondi possibili» passa a «necessità condizionata […] sino a prova contraria» ovvero fino a che dimostri di resistere a tutti i controesempi concepibili nel tempo (p. 132-133). È facile dunque comprendere come dall’assunzione del carattere condizionato della necessità derivino gravi problemi sul piano ontologico e semantico per quelle prospettive filosofiche che aspirino a prendere sul serio le pratiche scientifiche come vincolo per qualsivoglia programma di ricostruzione concettuale. Qui emerge la tesi di Veca: il riconoscimento del carattere in ogni caso condizionato della necessità ha natura prettamente epistemica quindi «non c’è nulla che ci autorizzi a sostenere che non si diano o non siano definibili relazioni o proprietà necessarie che hanno a che vedere con come sono fatte o stanno le cose» semmai «non sappiamo che farcene di necessità metafisiche» (p. 136). Anche se la necessità dipende dalla serie di circostanze in cui quella relazione è inserita non significa che non sia per noi uno strumento efficace di accesso al mondo. Proprio come avviene per i designatori rigidi di Kripke quando definiamo qualcosa come necessario facciamo riferimento a un oggetto la cui interpretazione riteniamo stabile a un tempo dato e che lo definisce entro un qualche ordine o una qualche ontologia formale. Riconosciamo in esso una certa invarianza rispetto ad almeno alcuni gruppi di trasformazioni. Veca definisce questo tipo di oggetti saturi rispetto all’interpretazione, gli oggetti insaturi sono invece quegli oggetti per cui è disponibile una varietà di interpretazioni divergenti. Ora gli oggetti insaturi sono connessi in qualsivoglia spazio concettuale a oggetti saturi che svolgono il ruolo di limiti per la loro interpretazione, secondo un principio olistico della connessione delle nostre credenze (p. 139). Questo non significa che gli oggetti saturi siano speciali, come le necessità metafisiche: più semplicemente assumono un rilievo particolare a un tempo dato poiché accade che nel loro caso abbiamo una singola interpretazione a fissarne il riferimento. Come per i designatori rigidi, una volta fissato il riferimento «si è liberi di variare in modo puramente combinatorio le proprietà dell’oggetto designato, semplicemente considerandolo come al centro di un insieme di mondi possibili che ruotano intorno ad esso» (p. 143). In tal modo saremo in grado di pensare una varietà di mondi possibili ma tale libertà sarà limitata dalle proprietà essenziali dell’oggetto in quanto saturo. Siamo qui al confine tra epistemico e aletico ed è per questa ragione che «è sensato pensare un mondo possibile in cui Cesare non passa il Rubicone, mentre appare irragionevole pensare un mondo possibile in cui Cesare è un coccodrillo» (p. 143). L’attuale teoria scientifica sarebbe dunque il riferimento iniziale che stabilisce ciò che è saturo fino a prova contraria e in questo modo verrebbe meno la cogenza della celebre distinzione fregeana tra Sinn e Bedeutung: «se il senso di qualcosa attiene al modo con cui ci viene dato l’accesso al riferimento a qualcosa, questo ha luogo entro il dominio epistemico che è certo distinto ma non indipendente dal dominio aletico che ospita solo il riferimento a oggetti. Accettiamo il significato come riferimento, ma non rinunciamo dal punto di vista epistemico alla prospettiva del senso inteso come una tra le possibili vie del riferimento» (p. 145).
Veca giunge a proporre una forma di realismo scientifico dallo sfondo modale fondato sull’equilibrio riflessivo tra l’intuizione empiristica rappresentata dal riferimento fisso, cui pertiene il carattere aletico del significato, e l’intuizione costruttivista rappresentata dalle modalità epistemiche, che garantiscono la possibilità di definire differenti descrizioni nel tempo del medesimo oggetto. La varietà delle vie del riferimento coincide con la possibilità di essere aperti al mondo (con McDowell) nel senso della doppia esigenza di conservare un attrito con esso, in quanto limite per le nostre ragioni, e al contempo di mantenere una certa distanza al fine di rendere possibile quel gioco di ricerca e ritrovamento con un cui miriamo a descrivere la realtà. Tuttavia, come avverte Putnam, il mondo non ci si “rivela”: abbiamo bisogno di un grande lavoro concettuale per metterci nelle condizioni di accedervi. Questo però non equivale a costruire il mondo ma semplicemente a cercarlo nella pratica non epistemicamente ideale di esseri che fanno uso del termine vero (p. 150).
di Alberto Giustiniano
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Nell’ultimo libro nato dal loro sodalizio intellettuale, Deleuze e Guattari scrivevano «le scienze, le arti, le filosofie sono ugualmente creatrici, anche se spetta solo alla filosofia creare dei concetti in senso stretto». Stante la differenza di ambiti, la creatività condivisa da arte e filosofia permette quel particolare fenomeno di risonanza tra pratiche diverse che nutre la riflessione estetica. A un caso particolare di questa risonanza, quello tra musica contemporanea e filosofia, è dedicato l’ultimo lavoro di Giacomo Fronzi, Philosophical Considerations on Contemporary Music. Sounding Constellations edito per i tipi di Cambridge Scholar Publishing, che descrive un paesaggio variegato e multiforme approntando per il lettore una mappa chiara e utile, basata su nove punti cardinali. Si susseguono così nove termini chiave (Estremi, Rumore, Silenzio, Tecnologia, Audience, Ascolto, Disintegrazione, New Media) attorno ai quali l’autore ricostruisce lo sviluppo storico e tecnico della musica contemporanea (Primo Movimento), il rapporto tra produzione e ricezione (Secondo Movimento) e le letture filosofiche originate dalle nuove esperienze musicali (Terzo Movimento). Come si sarà notato, lo sviluppo del discorso segue un modello musicale, articolato in tre movimenti, cui si aggiunge un Intermezzo (tra il secondo e il terzo movimento) dedicato a un altro termine chiave, Libertà, incarnato nelle pagine di Fronzi dalla figura di Thelonious Monk, pianista e compositore tra i più influenti nella storia del jazz.
È difficile rendere conto della vastità degli interessi musicali e della quantità delle problematiche speculative affrontate dall’autore; ci limiteremo pertanto a indicare alcuni snodi particolarmente significativi nel percorso proposto dal libro. La musica contemporanea (per usare un’espressione “comoda”, sebbene l’autore si interroghi sulle diverse possibilità di definizione: musica moderna, post-moderna, contemporanea) offre una pluralità di esperienze differenti e addirittura contraddittorie: in essa si può riconoscere una dialettica tra determinazione e indeterminazione, tra dematerializzazione e saturazione, tra seduzione e razionalità (cap. 1). La coppia che in maniera più netta mostra la vocazione della musica contemporanea alle alternative radicali è il binomio di rumore (cap. 2) e silenzio (cap. 3). Se nel primo termine dobbiamo leggere in filigrana la possibilità di una riflessione estetica sul brutto (sulla scorta della teorizzazione di Karl Rosenkranz) e un’istanza politica di resistenza ed emancipazione, attorno al secondo termine si condensano quei tentativi (non meno politici) di trasformazione dell’esperienza dell’ascolto e, attraverso questa, dell’esperienza del mondo tout court. Trattando il tema del silenzio Fronzi non si sofferma soltanto sul caso emblematico di Cage, che con 4’33’’ riesce a superare la tradizionale barriera tra realtà musicale ed extramusicale (p. 78), ma analizza anche la musica sempre più rarefatta di Anton Webern, in cui si assiste a una graduale dissoluzione della materialità del suono.
L’impostazione che vede la musica contemporanea divisa tra tendenze antitetiche trova un ulteriore caso applicativo: la tecnologia (cap. 4). Imprescindibile tanto nella produzione quanto nella ricezione, essa si dispone in maniera polarizzata intorno a due nuclei alternativi: l’estremo rigore (ad esempio nelle esperienze elettroacustiche tedesche) o il ritorno del dionisiaco attraverso la liberazione del corpo (si pensi al fenomeno rave). Allo stesso modo la ricezione (cap. 5), divisa tra l’individualismo dell’ascolto solitario e il collettivismo forzato derivante da una economizzazione dell’arte, testimonia la condizione di crisi permanente in cui versa ormai la musica. Il tema dell’ascolto (cap. 6) viene poi affrontato secondo lo schema interpretativo offerto da Adorno, forse l’autore più presente all’interno del volume: raramente appropriato, più frequentemente regressivo, l’ascolto musicale si scontra spesso con un’obiezione di carattere quasi cognitivo (“questo proprio non lo capisco”) che mette in luce la necessità di un’educazione all’esperienza estetica. In questo ambito però lo sviluppo tecnologico, che pure pone numerosi quesiti di ordine pratico e teorico, può svolgere un’utile funzione, mettendo a disposizione di un vasto pubblico i mezzi necessari per riascoltare: la ripetizione dell’ascolto, effettuabile attraverso un sempre crescente numero di mezzi e supporti, si rivela così uno strumento indispensabile per l’analisi e per l’educazione musicale.
L’ultima parte del libro si concentra sul tema del disordine (cap. 8) e sulle sfide proposte dai new media all’estetica musicale (cap. 9). L’autore declina il primo termine secondo tre linee di sviluppo: rapporto tra musica e teoria dell’informazione; relazione tra ordine e disordine strutturale; musica elettroacustica come realizzazione di un “corpo senza organi” («a formless, disorganised, non-stratified or de-stratified body», p. 186). Quest’ultima linea, impostata a partire dalla riflessione di Deleuze e Guattari, mi pare particolarmente feconda: non solo perché mostra un’oggettiva assonanza con le tendenze estetiche più caratteristiche della musica contemporanea, e in particolare della musica elettroacustica («The developments of western music may be integrally read in the light of the dialectic between territorialisation and de-territorialisation, with a tendency to suppression, in the 20th century, of the former by the latter», p. 184), ma anche perché consente di rispondere in maniera alternativa ai quesiti posti nell’ultimo capitolo: «a) is an aesthetic experience activated by technological music a real possibility? b) if so, what characteristics may it have […]?» (p. 212).
La risposta avanzata da Fronzi, sulla scorta delle definizioni di esperienza estetica proposte da autori come Jauss, Dewey, Levinson, ma anche Perniola, Franzini e Tedesco, pare negativa:
In any case, what seems clear is that the specific experience of technological (or electroacoustic) contemporary music developed in the dimension of listening makes it difficult to speak beyond doubt of aesthetic experience in the ‘strong’ sense, as happens, for example, with the contemplative-cognitive experience that may be generated by the relationship with a traditional cultural object (p. 214).
La «fine delle grandi esperienze estetiche» (Ibidem), così come la fine delle grandi narrazioni, presuppone un’idea di estetica tipicamente cognitivo-contemplativa che proprio la teoria di Deleuze e Guattari, citata in apertura, revoca in dubbio: se l’arte, così come la filosofia e la scienza, è una forma di creazione, l’esperienza estetica potrà abbandonare le tradizionali connotazioni basate su attenzione disinteressata, cognizione e giudizio per appropriarsi di quei caratteri espressivi («disarticulation and de-stratification […] tracing the lines of a plan […] distribution of singularity and haecceity, tremolos and intensities […] construction and mapping of a body or an assemblage», p. 187) messi a disposizione proprio dalla musica elettroacustica.
In realtà è lo stesso Fronzi che, in alcuni passi del libro, offre gli strumenti per pensare la musica contemporanea come il superamento di quella concezione dell’esperienza estetica che Benjamin avrebbe definito “borghese”. Con la musica elettroacustica infatti si abbandona l’epoca della riproducibilità tecnica per entrare in quella della riproducibilità tecnologica (p. 138): non più solo la riproduzione, ma lo stesso processo di produzione è costitutivamente intrecciato agli sviluppi e alle applicazioni degli ultimi ritrovati tecnologici. Si può pensare dunque che l’abbandono dell’atteggiamento contemplativo, tradizionalmente associato alla fruizione dell’opera d’arte, venga radicalizzato e generalizzato da questa “seconda rivoluzione” tecnologica. L’epoca della riproducibilità tecnologica introdotta dalla musica elettroacustica costituirebbe in questo modo il compimento di un processo e non l’irruzione di una inaspettata novità, la definitiva apertura di un nuovo spazio di esperienza e non semplicemente, rubando un’espressione di Luigi Nono, la «tragedia dell’ascolto». Ed è per questo motivo forse che la fine delle “grandi” esperienze estetiche, come afferma l’autore al termine del libro, «non è necessariamente un cattivo segno» (p. 214).
di Stefano Oliva
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La ragione del testo Che cosa si fa quando si fa filosofia?, scritto da Rossella Fabbrichesi ed edito da Raffaello Cortina (2017), è delineata esplicitamente nella Premessa e si articola significativamente all’interno dell’ambiente da cui prende avvio. Fabbrichesi, all’interno dell’aula universitaria milanese dove svolge la sua professione di insegnante, decide di affrontare i suoi studenti con una domanda spiazzante, nella sua apparente semplicità: “Che cos’è la filosofia?”. A partire da questa domanda, il tema della filosofia – intesa come campo di sapere determinato e, allo stesso tempo, come insieme delle procedure che la pongono in atto – viene dipanato nel corso di quindici capitoli e integrato da alcune riflessioni finali emerse a lezione e successivamente strutturate tramite un lavoro collettivo dell’autrice e dei suoi studenti. Il lavoro di conduzione seminariale, punto di partenza per la nascita del testo, è consistito in un processo di “e-ducazione” in cui l’autrice, limitandosi – a suo dire – a «orientare discorsi che venivano partoriti e circolavano tra gli astanti, alimentandosi negli scambi comuni», ha condotto con sé delle anime «insegnando loro a battere il ritmo del canto corale» (p. xiv) e, richiamandosi al modo originario di fare filosofia, l’ha posto in atto all’interno di quella comunità di studenti che, in poco, sarebbe diventata una comunità di “amici della filosofia”, una comunità di ricerca fondata su una condivisione di interessi e su una radicata volontà di attualizzarli.
Attualizzare i contenuti di un sapere che da lungo tempo viene messo in discussione, tanto nei suoi luoghi di tradizionale appartenenza – le accademie – tanto nella quotidianità – luogo di prassi da cui origina la filosofia – interrogandoli nelle sue parti elementari (“Che cos’è la filosofia?”, “Che cosa si fa quando si fa filosofia?”) piuttosto che ribadirli e al fine di strutturarli in un sistema nuovo, sempre ri-organizzato secondo le esigenze della contemporaneità, assume un profondo significato politico; si sceglie di riappropriarsi degli strumenti originari della filosofia, per riabitarne i luoghi, per richiamarne il ruolo di critica e di conseguente produzione creativa e alternativa del reale.
I presupposti del testo, che già dalle prime righe si mostrano articolati secondo due linee principali, una teorica e l’altra pratica, si intersecano per tutta la sua durata e, intrecciandosi intorno alle domande fondanti della filosofia – “Che cos’è?” (il “ti esti?” di socratica origine) e “che cosa si fa?” (il methodos dell’indagine) – generano un continuo rimando di livello tra il conoscitivo e il pratico. I rimbalzi di significato giungono a compiersi, senza mai concludersi per loro stessa natura, nell’Appendice – nominata significativamente L’esercizio della prassi teorica – in cui gli studenti si interrogano personalmente su che cosa fanno quando fanno filosofia, quasi a suggerire al lettore un bilancio del percorso che ha individualmente compiuto lasciandosi suggestionare e coinvolgere dalle riflessioni dei capitoli precedenti. In questo senso, se “Che cos’è la filosofia?” «Non è affatto una domanda rivolta a dei principianti» (p. xii), poiché non segna un’arché, ma anzi, presuppone un arsenale concettuale consolidato a seguito di anni di speculazione, il chiedere “Che cosa si fa quando si fa filosofia?” apre lo scenario a chiunque abbia mai sperimentato una “forza erotica”, nel senso platonico del termine, nei confronti di tutto «ciò che è insolito, stupefacente, difficile e divino» (p.74), a chiunque creda che non esista la filosofia, ma la pratica filosofica e a chiunque veda il proprio godimento alla base della ricerca filosofica potenziato dalla «crescita della ragionevolezza in un’ottica comunitaria» (p.76). In questo senso, coloro che, staccandosi dall’idea della filosofia come formazione originariamente paideutica, intendono l’attività professionale dell’insegnamento come unica e adeguata declinazione dalla formazione filosofica, difficilmente proveranno meraviglia o stupore (per richiamare – come fa l’autrice – le emozioni primarie che tradizionalmente designano i moventi originari dell’interrogazione filosofica del mondo) di fronte alla rassegna di concezioni o di visioni del mondo di filosofi noti che hanno provato, con parole diverse ma con univoca passione, ad attribuire significato alla prassi filosofica.
Considerando però che attribuire significato a una prassi significa anche, tramite interrogazione critica, fondarla trascendentalmente e dotarla di senso, la forza di questo testo consiste nella volontà di indagare il nesso che caratterizza la filosofia come insieme delle dottrine da apprendere e la filosofia come insieme delle prassi che, agite, alterano e modificano il mondo in cui ci orizzontiamo, più che nella padronanza con cui vengono richiamate e fatte dialogare le autorità filosofiche del nostro passato tramite i loro impianti speculativi. Sondare questo nesso corrisponde ad abitare il “limite” di cui parla Foucault e solo la consapevolezza della sua ineliminabile duplicità (Cfr. Amare la duplicità, pp. 57-62) ci farà progredire nella pratica filosofica; indagare un oggetto dirà tanto più sul metodo d’indagine che sulla natura dell’oggetto in sé e, d’altro canto, indagare sé non è altro che mettere in luce la verità in cui abitiamo, con un ricorso inevitabile a ciò che noi crediamo essere la verità. L’esercizio di ginnastica mentale che compiamo quindi su di noi facendo filosofia coincide – a ben vedere – con l’atto di approfondimento verso il reale per come ci si dà e nel suo non poter essere altrimenti, generando un flusso tanto più ininterrotto e dinamico tra etica e conoscenza quanto più diveniamo coscienti che «è la vita che produce la verità, e non la verità che si rivela aspirazione della vita» (p. 38).
di Evelina Praino